In un recente editoriale, chiedevamo un gesto di responsabilità agli artisti. Ma che anche la loro situazione sia, per così dire, ambigua, lo pensa il nostro Matteo Innocenti. Che così le dedica la seconda puntata della sua rubrica… seriale.
“Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Se il sommo poeta Alighieri, persino lui, dovette provare l’esperienza umiliante del bisogno forzoso, vale a dire lo stato di necessità per cause imposte più che determinate, non dovrebbe stupire l’odierno persistere del processo. Certo vi è una forte differenza storica e sociale rispetto all’antica situazione – allora si trattò di esilio, subìto da Dante non fatalmente considerata la sua implicazione in quello di altri – lo stesso la terzina ci è preziosa rispetto a ciò che si intende adesso porre in evidenza, per il coraggio dignitoso che la scaturì: l’artista in disapprovazione di quanto stava vivendo non solo ebbe la forza di riconoscere il danno, riuscì infine a trascenderlo in poesia.
La faccenda oggi è divenuta assai più sottile e ambigua; non si chiama battaglia politica né inimicizia dichiarata, non si vedono accusatori o profittatori manifesti, eppure volendo ritrarre l’artista italiano nella fase corrente ne vien fuori una figura che assomma in sé tutte le deficienze del precariato e del servilismo. E più sconcertante del fatto è che a esso non si fa cenno né da parte degli osservatori generici né, meno ragionevolmente, da parte di chi ci sta dentro; motivo particolare di quelle potenti anomalie che, una volta inoculate e messe radici, sussistono come abitudini entro un orizzonte di artificiosa normalità.
Pur escludendo il caso dei benestanti per patrimonio famigliare e dei velleitari, il cui progressivo aumento corrisponde alle condizioni in atto, tale si presenta la situazione: chi voglia praticare l’arte deve mendicare. Chiedere attenzione, consenso, denaro, protezione, in modo insistito fino al punto di ricevere qualcosa; e basterà poco per sentirsi soddisfatti, a causa delle difficoltà e dello sfinimento sopraggiunto. Questa dinamica, che all’apparenza sembra regolata da un normale rapporto di domanda e d’offerta, rivela invece patologie psicotiche, emergenti dall’esasperazione eccezionale delle sue manifestazioni.
La più evidente è tutta interna all’establishment. Lo status dei galleristi, dei curatori e degli speculatori – non conta qui riflettere sui motivi che hanno portato alla definizione attuale dei ruoli, basti sottolineare che il processo è scaturito dalla progressiva specializzazione delle arti visive, con la corresponsabilità di tutti gli attori – ha finito di rispondere a necessità concrete ed è mutata in mero esercizio di autorità nel momento della sostituzione, di tipo esclusivo, al gusto e al giudizio del pubblico.
In altri periodi gli artisti direttamente hanno avuto l’ardire, talvolta disperato, di proporre la propria diversità a tutti, pur sapendo che le reazioni almeno nell’immediato non sarebbero state positive. Questo slancio, oltre a rispondere al primario bisogno di una possibile accettazione da parte degli altri, originando grandi scontri restituiva una dose di eroismo anche in caso di sconfitta. Quando invece il confronto si è ristretto, appunto come adesso, la dimensione da battagliera si è fatta impiegatizia; ci si contenta della torbida provvidenza che il presente degli addetti ai lavori propone: il premio blasonato, un posto nella collettiva, la benedetta personale… ma sempre resta il sospetto di poter essere esclusi, con un grado di arbitrarietà identico a quello della concessione. Non è strano che in questo stato in cui l’autore come un cieco devoto rinuncia a ogni controllo, spesso anche sulla propria opera, non emergano opportunità di affrancamento. Chi allora farà notare alle figure poco fa citate di essere nate per avvicinare al gusto collettivo e invece, passando dalla mediazione all’autoreferenzialità, di avere aumentato al punto massimo la distanza di partenza? Quali artisti si riconosceranno protagonisti della propria abdicazione?
L’altra questione riguarda la società nel suo complesso. Durante il Rinascimento l’operare di alcune personalità eccezionali, in nome di manifeste abilità ha compiuto il passaggio della pittura, della scultura e dell’architettura alla dimensione liberale, definendo di conseguenza un nuovo valore dell’artefice. Molto dopo, negli sviluppi della civiltà industriale, il confronto ineludibile fra tecnica manuale e meccanica ha portato l’arte a dichiarare la superfluità della tecnica stessa, ovvero l’artista ha consapevolmente deciso di rinunciare al suo grande pregio, l’imitazione della natura – ciò che per secoli era valso come fattore comune di valutazione – per indicare a propria specificità l’interpretazione soggettiva ma condivisibile del reale.
Se tale scelta ha garantito sopravvivenza e libertà espressiva, purtroppo ha originato anche un altro effetto, la diffusione del senso di colpa: perché un sistema che mira alla continua espansione della produzione e dei consumi tratta chiunque tenti di sottrarsi ai suoi processi come elemento sovversivo da stigmatizzare e da umiliare. Ciò avviene almeno a un doppio livello. La società istituzionale permette che l’artista si affermi, se ne ha forza e talento, per poi ricondurlo a un contesto simile a quello rifiutato (ancora la speculazione economica attraverso le opere, i rapporti di vassallaggio, la ricerca isterica di nomi nuovi da bruciare in un periodo sempre più breve ecc.). La società dei cittadini, ormai assuefatta agli obblighi della democrazia nella sua versione demagogica e a tutte le paure della crisi, non potendo sopportare che qualcun altro sfugga alla catena di montaggio, nell’intimo giudica perlopiù inutili, idioti e irresponsabili gli artisti; gli affermati invece li preferisce pensare come entità astratte e venerabili, così da farne eccezioni piuttosto che alternative concrete.
L’insieme di tutti questi fattori ha fatto sì che alla prestazione artistica in sé, a meno che non vi sia una valutazione imposta, si dia un valore prossimo al nulla, cioè alla gratuità. Da notare che per ragioni attinenti ai diversi ambiti, ma non diverse nella sostanza, ciò ormai vale anche per le altre attività culturali, scrittura compresa. Non resta molto tempo prima che si compia del tutto la trasformazione e che l’artista divenga, ormai definitivamente, accattone o valletto: la nuova direzione da percorrere dovrà per forza comprendere ribellione, coraggio, umiltà e soprattutto autonomia.
Matteo Innocenti
(Artribune)