Meditare su un soggetto attraverso una sua possibile assenza – presentirne a un certo punto un mutamento di grado, provvisorio o definitivo che sia – per il pensiero occidentale significa anche, in maniera inevitabile, riconoscere nel soggetto stesso una tradizione duratura; è forse proprio la vertigine d’immaginarsi senza ciò che nei secoli e talvolta nei millenni è parso inscalfibile a innescarsi come primo moto fascinatorio. Così vale per il disegno, mezzo ed espressione nelle cui trasformazioni si rintracciano tanti moti della nostra mente durante la storia, basti pensare a quali differenze – estetiche nel senso filosofico pieno del termine, ovvero corrispondenti a delle visioni del mondo – esso segnava tra la pittura fiorentina e veneziana nel periodo rinascimentale. Affrontare una questione di questo tipo, ora che le indagini sullo statuto e sulla potenza delle immagini sembrano in genere essersi spostate verso altri fronti – di virtualità tecnologica declinata a vari livelli – è un atto sostanziale per un tempo, il nostro, che sconta la saturazione di cose ed immagini con il disconoscimento delle sue stesse basi.
Ripensare il medium: il fantasma del disegno, esposizione collettiva a cura di Saretto Cincinelli e Cristiana Collu in varie sedi a partire da Casa Masaccio (particolarità storica, un artista che del tratto e del carattere è stato genio rivoluzionario) si sviluppa come modulazione di tale interrogativo, ricomprendendo in sé, tramite corrispondenze evocative, elementi mitopoietici e storici che procedono dall’invenzione ideale della pittura (per mano involontaria della giovane di Corinto che tracciò a parete l’ombra dell’innamorato prossimo a partire) all’estro rituale dei capolavori rupestri quali Lascaux, dall’evanescenza del segno destinato a scomparire nel confronto col tempo all’uso cosciente della rappresentazione come indice ontologico, o contrario, della realtà. Cosa può dunque essere il fantasma qui richiamato? Proprio quanto del disegno non si fissa né circoscrive, la potenza appena attuata e già dissolta che poi sta a fondamento di parte dell’arte stessa.
I luoghi espositivi sono cinque e trenta gli artisti, non potendo sfuggire ai tagli della selezione si procederà con una modalità di scelta soggettiva ma mirata a rendere una visione sufficientemente esauriente – che non intende comunque equivalere a una valutazione di merito.
Di William Kentridge già era stato individuato il procedere distintivo da Rosalind Krauss in più di un testo d’indagine sul medium (e da lei prende ispirazione il titolo della mostra); si tratta dello sviluppo di storie in modo inverso rispetto a quello comune: cioè ricorrendo alla continua cancellazione di figure e scenari per poi tornarvi sopra, al fine di rendere la complessità di situazioni perlopiù collegate al male della convivenza umana, specie nel Sudafrica dell’apartheid.
Altra pratica del ritorno, ad un grado persino esasperato, è in Re/trato di Oscar Muñoz, video di un ritratto eseguito a pennello ed acqua sopra una lastra di cemento scaldata dal sole. L’evaporazione rende impossibile l’azione che eppure di continuo riprende, fino al raggiungimento di un’armonia nell’andamento ciclico imposto dal limite.
Nel video di Sophie Whettnall Detecting-Rebuilding si assiste ad un altro tentativo irrealizzabile, la duplicazione al suolo, con linee di nastro adesivo, dei raggi di luce che penetrano in una stanza. Lo spostamento della terra rispetto al sole nelle varie ore del giorno comporta una continua trasformazione dello scenario, e l’artista non può che dichiarare lo stato di sfalsamento tra la rappresentazione e la realtà.
Le P.d.A di Emanuele Becheri, parte della più ampia serie Impression, derivano da un gesto unico, la pressione della “polvere di affresco” tra due parti di carta bianca. L’aspetto di sapiente composizione è in realtà il risultato di un istante sospeso tra casualità e controllo: la volontà dell’artista viene come spostata in avanti, non più a precedere l’azione ma in contemporanea ad essa, per subito terminare – cioè, senza ulteriori ripensamenti, l’opera non può essere che quanto avviene.
Di Davide Rivalta sono presenti alcune sculture dal personale bestiario. Rinoceronte, bufale e lupi in bronzo collocati tra le vie di San Giovanni Valdarno, e un grande disegno a grafite su parete a Palazzo Corboli; una differenza di materia apparente più che sostanziale, considerando che in entrambi i casi la visione ravvicinata, verso cui invita la rudezza del modellato e del tratto, scopre un’informalità, quasi un dileguamento delle masse solide.
Alcuni esempi, quelli riportati, a indice non solo della sparizione indagata dal progetto, ma anche dell’emersione inevitabile, e certo cosciente, di quanto solitamente limitiamo a elemento sottinteso del discorso: il supporto. È solo tramite la disponibilità di esso a ricevere ogni tipo di “trattamento” che la rappresentazione diviene possibile; non è un caso se dai curatori viene citato proprio Jacques Derrida, autore tra gli altri testi di Forsennare il soggettile: “ciò che fa avvenire non può essere in sé mimetico”.
Riceviamo infine l’impressione di un disegno forte, non per quanto esso riproduce ma per il suo stesso essere gesto “segnante”: da un’ottima esposizione (nonché progetto di ricerca) in cui vengono equilibrate l’idea, la costruzione del discorso, l’autonomia di ogni singola opera.
Matteo Innocenti