Vis à Vis
presenta
Flâneur
residenza d’artista presso la Fondazione Molise Cultura
Palazzo ex GIL – Campobasso
2 – 23 maggio 2016
L’esercizio di uno sguardo alternativo
Satoshi Hirose, artista giapponese ma che possiamo definire cosmopolita – poiché oltre all’assidua frequentazione dell’Italia, tuttora risiede a Milano, numerosi sono i suoi spostamenti tra i vari paesi del mondo – nel tempo ha sviluppato una ricerca artistica originale basata su differenti modalità espressive, dall’installazione alla scultura, dalla fotografia alla pittura, fino all’azione partecipata. La nota specifica e costante è il ricorso agli elementi della quotidianità e la loro ricombinazione in forma inconsueta, così da stimolare possibilità ulteriori di confronto tra noi e questi; dunque un processo che amplia la portata significativa delle cose comuni, fino a renderle indice di impreviste e più ampie interrelazioni: per esempio tra la componente materiale e spirituale dell’uomo, tra la stabilità ideale e l’impermanenza effettiva dei fenomeni, tra le demarcazioni del naturale e dell’artificiale, tra gli accadimenti nelle scale del micro e del macrocosmo. Fattori vari, ricompresi per via di sintesi dall’ampio concetto della deterritorializzazione: nell’accezione più generica di superamento cosciente della localizzazione storica, geografica e sociale di un dato territorio, e in quella più articolata per cui tale processo, rappresentativo della stessa pratica filosofica, risulta quale stadio intermedio, fruttifero e necessario all’emersione di nuova consapevolezza.
Hirose in effetti pone in atto l’esercizio di uno sguardo alternativo, che non consideri con fissità alcun limite o confine di sorta. Da qui anche l’importanza del viaggio, di quello biografico a soddisfazione di una tendenza al nomadismo, e di quello d’immaginazione originato e reso condivisibile proprio dall’opera d’arte. Ne consegue una dimensione di continue ambivalenze, il cui obiettivo non vuole essere una dispersione discrezionale, ma la comprensione profonda – quindi il rispetto – dei punti di incontro e di differenza tra le culture umane, già al livello dell’ordinario; con le parole di Hirose «La banale dimensione quotidiana dell’esistenza, dove si ritiene non si dia mai nulla di nuovo, è in verità un mondo pieno di stimoli. Riproducendo e rimodulando i piccoli fatti della vita di ogni giorno, ci appare la ricchezza insospettata di questa dimensione dell’esistenza umana».
Sul piano ideativo e formale ciò è stato e viene tradotto dall’artista in modalità molteplici, che per comodità di comprensione possiamo riunire entro alcune scelte complessive.
Vi è innanzitutto l’accostamento di materiali “comuni” ma che solitamente non si trovano insieme (carta, spezia, plastica, frutta, grafite, fiori, sassi, legumi, biglie ecc… da ciò si intuisce l’influenza sia del movimento italiano Arte povera che di quello giapponese Mono-Ha). Tali abbinamenti, secondo una pratica consolidata in arte, sortiscono d’acchito un effetto di straniamento, opportuno per riflettere diversamente su quanto già conosciamo e per ri-comprenderlo con maggiore ampiezza. Ciò che emerge come strettamente personale nella dinamica è il rispetto dei materiali in quanto tali: essi piuttosto che esaurirsi in ciò che gli consegue – ovvero non vengono sacrificati ad alcuna funzione strumentale né sono trascesi quali simboli per qualcos’altro – mantengono intatto il proprio valore fisico: per esempio diremmo che Island: an existence of nine years “fatta” con tappi di plastica usati in casa e fagioli ci parla di un’ironica isola rappresentativa del trascorrere del tempo biografico, che i due Vertumnus “fatti” di marmo, acqua e fiori sulla superficie, ci parlano dei differenti periodi di trasformazione della vita fisica.
Un analogo procedimento avviene con i concetti. Soltanto che qui l’accostamento porta quale esito l’estrema semplificazione degli elementi di partenza, come se si cercasse un riavvicinamento con ciò che lo sviluppo del pensiero, paradossalmente, ha reso più difficile e distante. Può trattarsi di una visione complessiva come in World Map (self portrait), sfera ottenuta accartocciando delle mappe geografiche, cercando con l’atto delle proprie mani di arrivare a una coincidenza tra la weltanshauung e l’ambito dell’intimità (da cui il richiamo all’autoritratto). Oppure può trattarsi di un fattore culturale determinato come in Paradiso, trentamila palle di spugna che trasmutano uno spazio museale in sala di divertimento per i bambini e di abbandono ludico per gli adulti – in riferimento all’infinita questione circa il carattere funereo della musealizzazione.
Incontriamo quindi con assiduità il ricorso alla sinestesia; non solo la vista e non un suo ruolo di assoluta preminenza, alla fruizione dell’opera concorrono anche il tatto, il gusto, l’olfatto. Paradigmatico è il caso di Lemon Project 03, installazione ispirata da una visita a Sorrento e presentata in più situazioni espositive; una distesa di diecimila limoni su cui si può camminare tramite una piattaforma di vetro ed acciaio, mentre si è coinvolti dal colore giallo delle pareti dipinte, dal profumo penetrante degli agrumi, dal sapore delle spremute preparate dall’artista. Così Passeggero è un percorso attraverso una miriade di fiori artificiali, distribuiti in un ambiente in cui sentiamo diffuso il profumo di un estratto essenziale.
In ogni caso viene messa in risalto la presenza dell’osservatore: oltre i valori estetici le opere, per realizzarsi in quanto occasioni di “apertura” sui modi di comprensione del mondo, necessitano di interagire con una percezione attiva. Ecco perché, coerentemente, nella ricerca di Hirose non abbiamo mai un condizionamento, nessuna interpretazione deve essere preferibile alle altre per un atto imposto: a contare sono proprio la diversità e la compresenza delle posizioni, entro uno stato positivo di ambiguità che mostra come possa bastare un passo, un lieve spostamento, affinché sguardi dissimili giungano ad integrarsi.
L’immagine che esprime ciò nella sua pienezza è il centro, o meglio la sua relatività. Per l’artista non esiste un punto centrale rispetto a cui ogni altro risulti periferico, in una prospettiva dinamica “l’essere nel mezzo” corrisponde sempre al dove ci troviamo in un determinato momento, e questo è vero per tutti contemporaneamente. Nessuno scenario caotico o nichilista, a conseguire è il rispetto profondo dell’accadere della vita, il nostro saperla guardare in considerazione anche di come la guardano altri e del come la potremmo comunque differentemente guardare; un’attinente traduzione per immagini è in 2001: a space odyssey, installazione composta da altrettanti piccoli elementi di legno, ognuno diverso per colore, poggiati sopra alla superficie trasparente di tavoli sospesi in alto, e così visibili allo stesso momento dal basso oppure tramite la ripresa video al livello originale proiettata su dei monitor poggiati al pavimento.
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Arkhipélagos è una parola composta del greco antico, la cui traduzione letterale corrisponde a “mare principale” – probabilmente perché in quell’epoca di intensa fioritura vi si indicava soprattutto il Mediterraneo, area primaria in quanto origine e passaggio di idee, sapere, merci – e ad oggi non se ne è perduto il senso sostanziale di zona marina comprendente un raggruppamento di isole.
L’arcipelago si presta alla rappresentazione di modalità di vita e di pensiero caratteristiche della contemporaneità e per tale ragione, oltre alla geografia, vi si sono concentrate anche la filosofia e la letteratura; ineffabile eppure presente esso porta all’estremo, per via della sua fluidità, la questione generale dei confini e dei limiti – dove iniziano e dove terminano? una domanda riferibile a qualsiasi stato-nazione del pianeta e a qualsiasi sistema di vita.
Singolare e significativo l’arcipelago viene assunto da più parti quale alternativa possibile alle criticità della globalizzazione – a quel disegno di un mondo tutto collegato che ha dimostrato di rispondere a mire economiche più che culturali. È di appena qualche anno il saggio dell’intellettuale Régis Debray Eloge des frontières, che causò un acceso dibattito in Francia per la tesi di una funzione positiva, in quanto equilibrante, delle frontiere: «On confond les frontières et les murs. Les frontières sont un vaccin contre les murs. Elles permettent le va-et-vient. La frontière est une marque de modestie et de respect de l’autre: non, je ne suis pas partout chez moi.»; dunque non la separazione ma una dinamica d’osmosi, che se da una parte può arginare la deriva di un pianeta del tutto spersonalizzato in nome del mercato – il capitalismo nella sua realizzazione distopica – dall’altra può anche tutelarci dal pericolo inverso, già assai sperimentato nella storia, di Stati iper-chiusi pronti a limitare-eliminare i diritti dei propri cittadini in nome di una sicurezza assoluta, che comunque non sarebbe mai raggiungibile, quanto Giorgio Agamben ha definito stato d’eccezione, che: «ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni […] ha anzi assunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando all’esterno, il diritto internazionale e producendo all’interno, uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto». Dinanzi a una situazione di tale complessità, in cui il potere reale tende a un esercizio nell’anonimato – fino a che non sapremo più identificare chi siano davvero i potenti e quali i processi di detenzione della forza a cui siamo sottoposti e che accettiamo costantemente, per rifarsi ai termini usati da Zygmunt Bauman, siamo passati dall’eliminazione della “solidità” delle ideologie alla “liquidità” di processi non meno costrittivi ma di più complessa percezione – risulta evidente la necessità di modi ulteriori di riflessione e di visione, per giungere a comportamenti conseguenti.
Si tratta di alcune considerazioni tra molte altre che già sono state sviluppate e che ancora si potranno sviluppare; ai fini del nostro discorso è interessante soprattutto un aspetto, ovvero che anche in questo contesto storico noi restiamo in grado di scorgere alcuni fenomeni o cose i quali, in virtù di una loro disponibilità più manifesta, ci stimolano a un cambio di atteggiamento rispetto alla norma. L’arcipelago, per la sua evanescenza e lo stimolo a venire continuamente definito e ridefinito, è tra queste. E l’arte, sebbene poco reputata oggi nell’interpretazione degli accadimenti e relegata perlopiù a una dimensione autoreferenziale, può divenire, in parte già è tale, lo strumento primario tramite cui approcciarsi a tali generatrici diversità, per poi diffonderle affinché contribuiscano a una generale presa di coscienza del proprio tempo, da parte di noi come esseri umani e vita in atto.
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Il viaggio all’interno del Molise è venuto configurandosi per Satoshi Hirose come una continua scoperta, a partire da Campobasso, con il passaggio costante da piccoli centri abitati – ognuno forte di una propria storia – a zone di natura, da queste ad altri centri ancora. Procedendo verso il mare Adriatico si incontrano Casacalenda, Larino, Termoli, più prossimi al capoluogo Ferrazzano, Oratino, Limosano, verso la montagna Pietracupa, Pietrabbondante, Agnone, Capracotta, Pescopennataro. Sono soltanto alcuni dei toponimi, non potendoli citare tutti, ma conta l’impressione d’insieme: l’artista lungo questo percorso decisamente scandito, da luogo a luogo, da identità ad identità, ha infine immaginato proprio la visione di un arcipelago. Non si tratta certo di una descrizione aderente, piuttosto di un’evocazione dei rapporti di identità e di opposizione che la definizione ha insiti in sé: nella sostanza ci si riferisce a quella distanza che allo stesso tempo unisce e separa terre varie.
Così l’opera di Hirose ci restituisce un’immagine insieme poetica e concreta del territorio che lo ha ospitato. Untitled (13 cerchi) consiste di una serie di cerchi di acciaio, tredici per l’esattezza, inclusi gli uni negli altri seguendo un particolare ritmo e leggermente sollevati dal livello del suolo.
Sappiamo il cerchio avere una quantità notevole di significati, attribuitigli nel corso storico dalle varie culture mondiali. In generale sta a simbolo della perfezione, dell’omogeneità, di infinitezza e di assenza di divisione e di distinzione; se in Occidente esso è venuto rappresentando anche l’emanazione che dal divino giunge all’umano, in Oriente ha avuto uno sviluppo specifico nella pratica della calligrafia, Ensō infatti è una rappresentazione immediata della forma la cui esecuzione corrisponde al ritratto spirituale dell’autore. Nel caso di Hirose il cerchio conta non per un senso esclusivo, all’opposto per il suo darsi come catalizzatore di tanti motivi: potremmo dire che vale in quanto forma “aperta”, capace di prestarsi alle diverse interpretazioni degli osservatori – anche quella, suggerita dalla circonferenza che avvolge l’albero di magnolia, che riguardi il legame affettivo sorto tra l’artista e la regione.
L’installazione, che mantiene un forte carattere scultoreo, componendosi di più elementi identici ma variati nella dimensione, propone la questione del centro e della sua relatività almeno ad un doppio livello.
Internamente le forme pur in sé concluse rimandano a una reciprocità di relazioni. La completa percezione, che si compie costantemente entrando ed uscendo dall’opera, sancisce l’impossibile determinazione di un solo centro. Ed indicare questo – che ogni punto costituisce una centralità – equivale al riconoscimento della pari importanza e della pari dignità di tutte le posizioni: di più, si suggerisce che una tale disposizione è addirittura necessaria alla piena comprensione della realtà. Ugualmente vale per un territorio. Affinché gli abitanti riescano a intenderne l’insieme dei caratteri, e affinché questi vengano recepiti anche da fuori, c’è bisogno primariamente di riconoscere tutti i i legami che vi agiscono e favorire un loro armonico equilibrio.
Esternamente l’installazione offre l’opportunità di un punto di vista variabile; dall’alto le circonferenze descrivono un disegno d’insieme più riconoscibile – forse la stilizzazione di due volti, uno in dialogo e l’altro in ascolto – a suggerimento dell’importanza di mantenere sempre lo sguardo in stato attivo e creativo, per non perdere alcunché della ricchezza di quanto si offre a noi.
L’artista si avvale della qualità dimensionale, dovuta in considerazione della grandezza dell’edificio e del piazzale scelto come luogo d’esposizione, senza compromettere la leggerezza che sempre caratterizza le sue opere: i cerchi sono come sospesi, generando un’ombra di rilievo sul pavimento sottostante. La composizione è in stato di equilibrio, tra la solidità fisica della materia installata e la levità di una figurazione che potenzialmente potrebbe sempre mutare.
A corrispettivo “effimero” delle note presenti in Untitled (13 cerchi), l’artista ha inoltre sviluppato un percorso di opere nello stesso numero dei cerchi, collocate all’interno del Palazzo Ex Gil, in luoghi che non hanno una specifica valenza funzionale e che dunque devono come essere ri-scoperti. Le materie utilizzate sono conseguenti all’esperienza di residenza o derivano da altri lavori presentati in passato: resti di carta gualciti a creare piccoli mondi, sassi uniti da un filo o accumulati al bordo di una finestra, bastoni di bambù recuperati e sospesi in alto, terracotta impressa con le mani a “registrazione” del proprio sentire, pasta alimentare a formare una costellazione, un’ampia documentazione fotografica di quanto visto ed esperito nel periodo di permanenza e così via. Ne emerge un contesto ricco, mirato alla condivisione, che pur nella propria autonomia estetica e poetica diviene testimonianza progressiva del processo che ha condotto alla realizzazione dell’installazione definitiva.
Matteo Innocenti