Nuove intenzioni, direttore d’esperienza e giuria composita. Gli ingredienti del successo sembravano esserci tutti. E invece il festival veneziano del cinema ha tradito le aspettative. Responsabilità delle selezioni o mediocrità delle opere?
A conclusione degli entusiasmi, dei clamori e delle sfilate in ripetizione lungo il red carpet, l’ultima edizione del Festival del Cinema si lascia dietro una sensazione precisa, ovvero la delusione. Molte delle parole scelte dal direttore Müller, di rimbalzo condivise da giurati e stampa, non hanno trovato – aldilà degli intenti – corrispondenze concrete. Contaminazione, ricerca, multiculturalismo, innovazione, sorpresa, i termini che sembravano derivare per via ideale dalla trascorsa Biennale d’arte di Daniel Birnbaum – Making Worlds – sono stati compresi solo marginalmente nell’insieme delle opere filmiche.
La presidenza di giuria affidata a Quentin Tarantino, regista maniacale e ironico del postmoderno, non ha impedito (forse il contrario) che la premiazione divenisse un’inconsapevole resa per sfinimento. La vincitrice Sofia Coppola, che conSomewhere tocca l’apice della noia e dell’evanescenza incontrollata, è il simulacro perfetto del vecchio travestito da nuovo: un’autrice under 40 al meglio di sé nella proposta di singole immagini accattivanti, ma incapace di convincere nella resa complessiva, prima di tutto per il ricorso testardo – e qui si scopre il nervo – a tematiche e situazioni esaurite ormai da decenni. Si insiste a livello generale sulla crisi delle relazioni umane, della comunicazione e dei valori, mentre la reale crisi, piaccia o meno, è quella del cinema narrativo.
A tal proposito anche i cineasti italiani, nonostante gli intenti nobili e certo sinceri, non fanno eccezione. Nel loro caso l’abbaglio si chiama Storia: Capuano, Scimeca,Celestini, Martone, Placido, in misura minore Costanzo e Mazzacurati, i film nostrani per un verso o per l’altro fanno sempre ritorno, come fuggitivi spaventati, al grande porto del “sociale” e del “politico”. Una zavorra che vizia ogni risultato.
Tra le opere migliori in concorso si contano invece Meek’s Cutoff dell’americanaKelly Reichardt, scarna quanto evocativa messa in scena della lotta tra uomo e paesaggio nell’Oregon del 1845 – si potrebbe definirlo un anti-western – eOvsyanki di Alekesi Fedorchenko, opera dal ritmo dilatato, ricca di riferimenti all’antropologia e alla ritualità.
Gli esiti convincono anche nel caso della sezione parallela Orizzonti, quest’anno sotto l’egida di Sherin Neshat e implementata dall’apertura ai film di durata variabile, i cosiddetti “fuori formato”. Estranee alle dinamiche del concorso, e quindi selezionate con criteri di libertà maggiore, le opere rivelano sostanze e forme diverse dalle abituali: per rendere un’idea si segnalano, in sintesi estrema, la fiaba sensuale La belle endormie di Catherine Breillat (la stessa del passatoRomance con Rocco Siffredi), l’armonia insieme robusta e delicata nel Capo di Yuri Ancarani – con soggetto la cavatura del marmo nell’appennino carrarese -, k.364 a journey by train di Douglas Gordon, il promettente Stardust del belga Nicolas Provost, vari lavori in 3d e il ritorno di Paul Morrissey dietro la macchina da presa.
Sommando tali segnali e considerando il festival veneziano come esemplificativo di processi più ampi, si potrebbero trarre specifiche conclusioni; soprattutto, pena la rilevanza e forse nel futuro la sopravvivenza stessa della “poetica” autoriale, la necessità di allargare la produzione mainstream e la distribuzione alla vera sperimentazione. Il che equivarrebbe a implementare le possibilità espressive del cinematografo, con il superamento definitivo di divisioni arbitrarie come quella che emargina la videoarte, dissociazione incomprensibile in termini estetici.
Il grande pubblico avrebbe difficoltà a comprendere e a gradire? È tutto da stabilire. Certo è, invece, che se il cinema è stato teorizzato e definito nel passato quale mezzo popolare di comunicazione, oggi, sottomesso all’impero della televisione e aggredito dall’avvento tecnologico di internet, tale linguaggio artistico ha il compito e la possibilità di scovare nuove direzioni. Appunto “somewhere” potrebbe essere la parola giusta, ma senza la maniera e l’istinto reazionario di chi oggi vince.
Matteo Innocenti