Per il futuro sto lavorando a un’importante opera che si concretizzerà nel corso del 2011, a New York. Invece l’ultima performance realizzata, VB66, si è svolta al mercato ittico di Napoli: la ritengo importante perché, oltre ai corpi di un gruppo di ragazze interamente dipinte di nero, ho utilizzato per la terza volta dei frammenti di gesso, con riferimento sia a un’idea di disagio connaturata al corpo femminile che ai ritrovamenti archeologici di Pompei.
Sembrerebbe un prologo al tuo intervento per la Biennale di Scultura di Carrara…
In effetti è così. Soltanto che, per ovvie ragioni, a Carrara ho scelto di utilizzare il marmo.
Non percepisci come un’opposizione, di tipo materiale o temporale, il rapporto tra la carne dei corpi e la pietra delle sculture?
Fino ad ora sì. Sono sempre ricorsa al corpo perché ritengo che ogni persona sia, di per sé, nell’intimità come nell’apparenza, carica di elementi sociali e politici. La scultura invece si lega inevitabilmente a un senso “tombale”. Eppure, aldilà di questo rapporto tra vita e morte, l’esperienza carrarese mi ha molto divertito.
Quanta influenza hanno i luoghi sulla tua opera? Penso a Cavallucci e alla sua scelta di utilizzare location cittadine ormai dimenticate, in totale disuso…
Il luogo è essenziale, basti pensare che le mie performance sono sempre site specific. Carrara non è stata un’eccezione, anzi. Solo in un posto “sacro” diventa possibile lavorare la pietra con tale attenzione: ricordo che durante la mia prima visita fui colpita dalla dedizione degli operai nel seguire le indicazioni di McCarthy per la realizzazione del grande escremento in travertino.
Quali sviluppi ha avuto la forma artistica della performance, in questi ultimi anni?
Devo ammettere di non riuscire a guardare e valutare l’arte in modo “storico”. Ciò che posso dire è che, rispetto agli scorsi decenni, la performance viene ora accettata con maggiore serenità. Durante le mie prime esperienze ero costretta a reificare tutto con foto e video; adesso ho la libertà di sviluppare e realizzare opere effimere, di cui potrebbe anche non restare traccia.
Ultimamente come scegli le modelle?
Generalmente cerco corpi che siano simili tra loro. Poi è importante che ognuno di essi abbia una nota particolare, un quid che rimandi, per somiglianza, alla mia storia e all’arte classica.
Arte classica. Che cosa ha a che fare con la moda?
Io sono cresciuta in un contesto culturale che valutava la moda come un’arte minore, una forma espressiva da prendere in scarsa considerazione. Rifarmi ad essa è stata una piccola ribellione contro quel giudizio.
Quindi si tratta di una personale rivalutazione?
Sì, ma non in primo grado. Innanzitutto la moda è per me uno strumento visivo, come potrebbe esserlo qualsiasi altra materia. Per questo l’esito che spesso ottengo è di tipo decostruzionista.
Qual è il tuo modo di lavorare? Hai molti collaboratori?
Non ci crederai, ma non ho neanche un vero studio! Il mio spazio di lavoro è fatto dalla testa e da un MacBook. Ho un paio di collaboratori che mi aiutano a rispondere al telefono, soltanto perché, se fosse per me, non alzerei mai la cornetta…
E le tue idee sono improvvise, o sei riflessiva?
Potrei definirmi una fatalista, dato che sono in perenne attesa del destino. Aspetto le richieste di un committente, e solo a quel punto mi metto al lavoro. La cosa particolare è che, almeno fino ad ora, ho sempre cercato risultati che fossero contrari o almeno deludenti rispetto alla richiesta iniziale. Perché? Per realizzare, forse con un eccesso di idealismo, quanto definiamo “l’arte per l’arte”. Proprio in questo periodo inizio a convincermi della necessità di cambiare linea, cioè di interrogarmi maggiormente sulle aspettative del pubblico.
Che differenze trovi nel lavorare in Italia e all’estero?
L’Italia è molto importante per il riferimento continuo alla cultura classica. Per esempio la performance VB66 è stata pienamente compresa a Napoli e nel resto della penisola, ma non fuori d’Europa. Ciò avviene per una dinamica tipicamente americana, e che per me risulta allo stesso modo essenziale: negli States l’arte, prima che concetto, diventa elemento sociale. Una donna nuda non è solo un’idea, ma un riferimento preciso alla condizione femminile.
A questo proposito raccolgo una delle critiche che ti vengono mosse più di frequente: le tue donne sono oggetti?
È il contrario, uso i corpi per rendere un modello forte di personalità e bellezza femminili. Il mio linguaggio si sviluppa su una linea di confine e per questo potrebbe apparire ambiguo, mentre in realtà è determinato: l’uso di alcuni elementi mira a criticare la retorica femminista più ottusa. Il ricorso a espressioni forti ha il fine, pur con mio rammarico, di generare una reazione emotiva nei contesti che non approvo.
Quali sono gli artisti contemporanei a cui ti senti più vicina?
Anche se mi rendo conto che è un errore, non guardo in maniera precisa quello che mi avviene intorno. Posso dire che a livello complessivo noto dei fattori positivi, mi pare che gli artisti stiano abbandonando l’atteggiamento celebrale del recente passato per riavvicinarsi alle grandi avanguardie, soprattutto alle tecniche e alla manualità ad esse collegate.
Matteo Innocenti