La questione dei bordi come limite di contatto tra due dimensioni, quindi potremmo dire una marginalità intesa in modo positivo, credo che attraversi tutta la storia delle arti. Ogni tipo di rappresentazione presuppone una considerazione sul rappresentato, che ciò sia cosciente a pieno grado o meno; restringendo l’ambito a quello delle sole arti visive, un dipinto rinascimentale inquadrato dall’eleganza e dalla rigidità del sistema prospettico o una scultura barocca con la sua spettacolare sovrabbondanza di movimenti e pathos, stimolano il pensiero critico sul reale almeno quanto un’opera più programmatica, e di altro periodo, come potrebbe essere la sedia una e trina nella versione oggetto, fotografia, definizione dal vocabolario. Non casualmente già Platone rilevò una potenza precipua delle arti, per volgerla a loro sfavore e procedere a una critica negativa: in quanto mimesi imperfetta di cose imperfette (e quindi allontanamento ulteriore dalla verità delle idee) e capacità di accendere gli animi, portarli a uno stato di eccitazione, far scaturire vari tipi di sentimento.
Con ciò non voglio dire che ogni epoca sia uguale a livello di realizzazione artistica, tutt’altro, e specificherò il mio punto di vista tra poco; ciò che mi interessa sottolineare è che le arti, a livello costitutivo, si pongono in una zona di passaggio tra il conosciuto e ciò che ancora dobbiamo e vogliamo conoscere, tra il determinato e l’alternativa possibile.
Che cosa quindi caratterizza ciò che definiamo arte contemporanea, rispetto ad altri periodi? Ricorrendo alla delimitazione “ampia” per cui è arte contemporanea quanto inizia dalle avanguardie storiche, pare evidente, sintetizzando al massimo, che l’insieme di forti novità emerse da allora abbiano proceduto verso due punti: l’ampliamento di ciò che si può considerare arte – secondo il binomio arte e vita – e la riflessione sul linguaggio. Attualmente noi siamo ancora immersi in un contesto artistico in cui l’interrogazione sul linguaggio resta dominante: le opere tendono a porsi domande su quanto è stato realizzato in arte prima di loro e sui modi in cui si possa, per loro stesso tramite, variare il discorso. Anche ciò non è probabilmente nuovo, ad esempio l’età ellenistica e il manierismo si caratterizzarono per la continua sperimentazione sul linguaggio artistico, spinta fino al virtuosismo. Ogni età fa arte in base allo stato culturale della società in quel momento, toccando ciò che le pare importante e interessante. Senza che ciò si muti in stasi, poiché il processo umano è sempre in fermento.
Tornando in modo più diretto alla questione dei bordi, noi dove ci troviamo? La mia opinione è che noi potremmo trovarci all’inizio di una lunga transizione. Provo a spiegarmi meglio. L’interrogazione sul linguaggio operata dalle arti visive da oltre un secolo, per quanto apporto necessario e di valore, è da anni in esaurimento. Il dominio della forma va a scapito del rapporto con l’enunciato, e in sostanza oggi le opere molto raramente ci dicono qualcosa (fuori dalla sfera dell’arte) a riguardo del mondo cui appartengono. La rinuncia a un rapporto con l’enunciato può persistere per un periodo limitato, a segnare un’emergenza specifica, non come stato di cose protratto – in fondo le altre arti, si pensi a quelle performative, alla cinematografia o alla letteratura, non hanno proseguito in modo così netto in tale direzione. Per quanto chi sta dentro le arti visive, per passione e lavoro, possa apprezzare un discorso puramente formale, quasi privo di referenze esterne, dobbiamo considerare che ciò comporta necessariamente un distacco da chi abita gli altri contesti, ovvero da ciò che chiamiamo “pubblico”. Proprio qui si apre la questione etica. È giusto e proficuo che l’arte rinunci alla relazione con il quotidiano e con la gente? Ognuno di noi darà la sua risposta. Quanto vorrei sottolineare in conclusione è che, almeno, non si può negare che molto non quadri. Dato lo stato critico perdurante del nostro mondo, che assume caratteri inediti e sempre più gravi, ci sarebbe bisogno che l’arte vi si confrontasse: perché servirebbe a lei e a noi. Non mi riferisco a opere di esplicito carattere politico o sociale, ma a opere che prendano le mosse da uno stato di necessità e che pongano le condizioni per un dialogo allargato, non solo mirato agli specialisti dell’arte. Cioè dedicarsi alla vita, più che al riconoscimento da parte di un sistema ristretto ed esclusivista.
La transizione cui facevo riferimento, con senso di speranza, è proprio questa, che l’arte si assuma di nuovo il rischio di essere linguaggio parlante (pur sempre interrogativo) e non mera interrogazione su di sé (rispetto alla seconda prospettiva, mi pare, l’interesse risulta davvero minimo; maggiore è la stanchezza). Quindi i bordi non come orgogliosa fuga dal banale quotidiano per chiudersi in una torre d’avorio di soli adepti – inizio di ogni narcisismo e mancanza di discernimento – né come arroccamento sdegnato e provocatorio, perché anche questo è ormai un mito romantico consunto: vedo i bordi come continua intersezione tra quella cosa strana, inesauribile, rivoluzionaria che è l’arte, e la società di cui si è parte responsabile.
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