L’edizione da poco conclusa della Mostra del Cinema di Venezia, segnando il passaggio da una direzione all’altra, comporta riflessioni sul merito della gestione oltre che sui valori artistici. Con la coscienza che le due componenti non sono estranee tra loro. Anzi.
La quasi decade al timone Mostra del Cinema di Venezia da parte del cosmopolita Marco Müller, segnata una linea fagocitante per la quantità di proposte e impetuosa nella ricerca di risposte mediatiche, con il trasferimento al festival romano ha lasciato posto al ritorno di Alberto Barbera, propositore di un’impostazione antitetica alla precedente. In parte influisce il fatto che il numero 69 cade in un anno di crisi acuta e riverberata dalle pubbliche opinioni fino al limite della psicosi, ma è soprattutto per il carattere del neodirettore se le parole d’ordine nell’organizzazione sono divenute rigore e misura.
Il numero di pellicole, dal picco di circa 180, si è dimezzato cercando il mantenimento della qualità, con maggiore agio di tutti nell’assistere alle proiezioni; la fossa abnorme in faccia al palazzo del Casinò – simbolo di un progetto sproporzionato in attesa di finanziamenti incerti – è stata ricoperta e riallestita secondo un triennale e più realistico piano di modernizzazione delle sale; infine, e si aggiunga soprattutto, la Mostra in analogia ai concorrenti Cannes, Berlino e Toronto ha preso atto dell’importanza del mercato e degli accordi commerciali. Una sezione dello storico hotel Excelsior è stata apprestata per facilitare l’accoglienza dei produttori e dei distributori, favorendone le trattative. Non è una mera questione materiale: il fascino della città lagunare, in una fase nazionale di così acuta depressione culturale, non può bastare a garantire il pregio e l’importanza della manifestazione (senza contare che quest’anno la partecipazione di pubblico e di stampa estera, ancora per motivi economici, è diminuita sensibilmente rispetto al passato).
Del resto, la tendenza generale in Italia ad acuire questa dissociazione dal mercato, per la convinzione che il cinema d’autore non sia roba per il grande pubblico, è diventata una limitazione terribile in termini di scelte stilistiche e d’emersione dei nuovi talenti. In tale situazione, gli espedienti possibili sono pochi: rimediare un finanziamento europeo in associazione con altri Paesi, realizzare un film che sia gradito alla politica poiché vicino a un tema sociale, sperare nell’intervento di un produttore che ancora creda al prestigio delle idee.
Veniamo al concorso. I 18 film in lista sono stati giudicati mediamente buoni, e se ciò dimostra l’accortezza delle selezioni, rivela anche l’assenza di un’opera in grado di emergere sulle altre. Così che per i nomi più importanti la valutazione è da farsi rispetto ai migliori risultati delle rispettive carriere, fino a scoprire che si sono avute tante conferme e in nessun caso un capolavoro.
Paul Thomas Anderson ancora una volta rivela una perfezione tecnica nello stile e nella direzione degli attori, eppure The Master, la cui complessa genesi non ha certo giovato alla naturalezza dell’effetto, lascia nell’osservatore qualcosa di irrisolto;Terrence Malick, sfidando la propria mitica “lentezza”, ha presentato To the Wonderappena un paio di anni dopo la vittoria a Cannes, e se il confronto in termini cinematografici con il superiore Tree of Life è inevitabile, bisogna segnalare che l’opera del regista statunitense ha il grande merito di volersi liberare da ogni consuetudine narrativa (in rapporto di analogia con la videoarte). Passion di Brian De Palma risulta godibile ma poco incisivo, le stesse sperimentazioni visive e di struttura non vanno oltre un compiaciuto omaggio al cinema del passato; Marco Bellocchio con Bella Addormentata, nel rispetto del proprio stile, riesce a caricare di valenze oniriche anche una tematica sociale, e se ciò gli concede l’imparzialità nella trattazione del tema, lo stesso non lo rende immune da un’attenzione eccessiva alla scena nazionale; da qui le varie accuse, non troppo giustificate, di provincialismo.
Quanto al vincitore del Leone d’Oro, Kim Ki-duk: nella percezione generale la vittoria si è rivelata una sorpresa, non perché al regista manchino le qualità per il premio ma perché Pieta appare deludente rispetto ad altre sue opere. Il film, pur dotato di poesia, manca di una reale originalità, tanto da sembrare, nei richiami alla violenza, al sesso e alla vendetta, il risultato standard del cinema sudcoreano.
Davvero la gaffe durante la serata conclusiva, con Laetitia Casta che imbarazzata ammette l’errore nell’assegnazione del Leone d’Argento, e ancora prima la frase del presidente di giuria Michale Mann, “un solo premio a film”, generano il sospetto che la decisione sia stata il risultato di una combine, considerata la parità di meriti, per non scontentare nessuno, esito che comunque ha originato numerose polemiche.
Da segnalare in margine: È stato il figlio di Daniele Ciprì, con l’ulteriore merito insieme a Bellocchio di aver messo in luce il giovane talento di Fabrizio Falco, che infatti si è aggiudicato il Premio Mastroianni, e Spring Breakers di Harmony Korine, un film a suo modo orribile e geniale, di fatto l’unico in grado di disorientare la sala relativizzando i valori della trama e della costruzione di senso.
Matteo Innocenti
(Artribune)