Cinque prospettive estreme. La sintesi di un pensiero che avvicina la conoscenza e l’arte, con gli aspetti più pericolosi della realtà. Ne abbiamo discusso in un’intervista-dialogo, con uno dei massimi filosofi contemporanei: Franco Rella.
Il racconto del nulla
Franz Kafka. Il protagonista K – costante abbreviazione/proiezione dell’autore – vive e immagina un mondo fatto d’inconsistenza. Cammina lungo una strada innevata per raggiungere il Castello, sede di un potere assoluto, ma ad ogni passo quello che dovrebbe essere un edificio grandioso perde di solidità, fino a svanire. L’illimitato Signor Klamm, l’uomo che nel villaggio è a comando di tutto e di tutti, non è che un fantasma (e se fosse di carne, stando agli stupidi racconti che lo riguardano, sarebbe un mediocre).
L’intera opera dello scrittore ceco è il tentativo ossessionato di testimoniare, e fare avvertire, la vertigine del nulla. La ragione, la religione, la filosofia, l’amore, la speranza sono parole prive di reale densità, come tutto il resto. Allora perché Kafka ha voluto, comunque, affidarsi alla scrittura?
FR. In Kafka il potere è assoluto perché invisibile. Ed è tale perché creduto tale. È a questo che K. cerca di opporsi: egli è “ein kämpfender Mann”, è l’uomo della lotta e della contesa.
Non so se il mondo di Kafka sia davvero privo di densità. I suoi romanzi e i suoi racconti sono pieni di corpi che si urtano, si scontrano, si toccano. Non se si possa dire che le parole siano prive di realtà. Sono prive di senso, certamente, ma tanto terribili che nel racconto Nella colonia penale addirittura si incidono sul corpo del condannato. Milena ha detto che Kafka era come un uomo nudo in mezzo a uomini vestiti. Voleva dire che era come un uomo scorticato, urticato dalla sua sensibilità.
Perché Kafka scrive, e afferma più volte che la scrittura è la cosa più importante della sua vita, anche se attraverso di essa si manifestano i demoni che stanno nel buio della cantina della sua anima, anche se nella parole scritte alita un gelo mortale?
La scrittura è male. È contaminata con il male. Baudelaire inizia I fiori del male chiedendo al lettore di essergli complice in questo male, perché certamente come ha affermato Ernesto Sàbato, scrivere è un dovere ma è anche una colpa. Si devono temere le parole perché la scrittura, egli dice, gli “ha permesso di esprimere orribili e contraddittorie manifestazioni dell’anima” e questo è un dovere in quanto è necessario “in un mondo in decomposizione” esprimere il caos in cui ci si dibatte e liberare così “idee e ossessioni” che altrimenti rimarrebbero inspiegabili.
Anche Thomas Mann ha questa coscienza. L’opera d’arte è gelo, è il gelo di Adrian Leverkühn nel Doctor Faustus, ma senza questo gelo la vita è calore animale, è sofferenza, è dolore, è orrore: è il male da cui non ci si può difendere che con il male di scrivere.
La creazione violenta
Lucio Fontana taglia la tela, preso da un’ispirazione particolare, ed è come se stuprasse la tradizione pittorica. Le pennellate di Franz Kline feriscono il bianco con fendenti di colore nero. Jackson Pollock infierisce sul quadro steso in orizzontale, al modo di un omicida sul corpo della vittima. La saturazione dei toni e il collasso della prospettiva nella stanza di Vincent Van Gogh ci trascinano dentro un’allucinazione.
Qual’è il ruolo, positivo o negativo poco importa, della violenza nel processo artistico?
FR. Questo è un aspetto su cui sto ancora indagando. Credo che la violenza sia implicita nell’atto artistico. Già quello che chiamiamo ispirazione è una rottura rispetto al mondo della quotidianità. Ma poi l’artista opera violenza rispetto alla sua stessa ispirazione per poter dare ad essa forma e renderla comunicabile. L’esito è violento rispetto al lettore o allo spettatore, che viene strappato dalle sue abitudini conoscitive, dalla sua normale percezione del mondo: è costretto a contrapporre al piano di realtà che è suo, in cui vive, il piano di realtà che gli è proposto attraverso l’opera.
Adorno esalta la violenza di Kafka che mette il suo lettore nella sensazione che precede il vomito. Esalta la musica moderna che rompe con ogni abitudine. Esalta Beckett perché la sua negazione gnosticamente allude ad una ulteriorità.
Bataille ha colto tutto questo quando ha affermato che la poesia è il sacrificio della parola utile, vale a dire della parola comunicativa. Bataille dice che questo sacrificio violento è perfetto quando, come in Rimbaud, la poesia distrugge se stessa. Rimbaud precipita nel silenzio. La sua parola è stata definitivamente sacrificata. Quando Kafka chiede a Brod di distruggere tutta la sua opera forse pensava a qualcosa di analogo.
Nichilismo
Tutti questi elementi potrebbero portarci a una deriva, del resto già nota: il nichilismo.
Forse vi siamo già dentro? La filosofia è ancora in grado di dare delle risposte, o meglio di fare le domande necessarie?
FR. Nel nichilismo siamo, ci siamo da quasi due secoli. Nietzsche lo ha detto. Ha visto il nichilismo e ha affermato la necessità di creare rispetto ad esso un contraccolpo. Il nostro tempo è il tempo-post: postmoderno, postumano. Un pensiero e un pratica che parte dall’affermazione che la storia è finita, come ha detto Kojève e come hanno ripetuto Foucault, Deleuze, ma anche i filosofi analitici anglosassoni. Nello spazio post-storico si muovono esseri che non sono più soggetti, non più persone, ma ibridi, su cui si esercita un potere che, come in Kafka, è impersonale. Ma qui non c’è la tensione tragica di Kafka, ma l’accettazione dello stato di cose presente, o più che accettazione. Il pensiero abdica in favore della tecnica che giustifica e legittima se stessa. I grandi temi svaporano, il dolore, la pena, il male e la morte. Perché dovremmo preoccuparcene se un autorevole intellettuale ha affermato che ormai i ventenni sono in grado di decidere se, come e quando morire?
Le domande riemergono. Riemergono nella grande letteratura, più raramente nelle arti visive, là dove domina assolutamente il mercato. Riemergono anche nelle produzioni di genere: nei thrillers, in cui l’oscurità del male si presenta ancora come buio, o nei serial televisivi. Dovremmo interrogare anche questo con la stessa ansia con cui interroghiamo Kafka o Bataille.
Matteo Innocenti
Sull’orlo dell’abisso: dialogo con Franco Rella – I° parte
Franco Rella (Rovereto, 1944), professore ordinario di Estetica allo IUAV, è uno dei maggiori filosofi italiani contemporanei. La sua ricerca percorre da sempre filosofia e letteratura, anche attraverso gli autori di cui si è fatto curatore italiano (Baudelaire, Rilke, Flaubert).
Tra i suoi testi più importanti: Il silenzio e le parole, L’enigma della bellezza, Pensare per figure, Scritture estreme, Proust e Kafka.
L’intervista prende spunto dal libro “Nietzsche:Arte e Verità”, scritto con Susanna Mati, edito da Mimesis.