Un celebre proverbio israeliano dice: “Gerusalemme prega, Tel Aviv si diverte”. Ed è proprio così, anche se la città non è certo un capolavoro di bellezza. Fra Bauhaus e locali notturni, musei griffati e l’immancabile area industriale riconvertita, la città delle ambasciate si fa largo fra le mete del turismo culturale.
Quasi una fondazione mitica. A inizio Novecento, sessantasei famiglie decidono che una landa di deserto vicino al mare, con il tempo e con il lavoro, diverrà una città tanto grande e ricca da potersi chiamare “New York del Medio Oriente”. Cent’anni dopo quell’iniziale sogno di terra, Tel Aviv – letteralmente la ‘collina della primavera’, il luogo che nella profezia di Ezechiele sarebbe divenuto riparo per gli esiliati – è diventata la capitale economica e culturale d’Israele.
Il mito pur realizzato deve scontrarsi con la realtà, poiché innegabilmente lo Stato israeliano, vale a dire la sua nascita, i suoi confini e la sua urgenza di difesa, rappresenta una delle più complesse questioni geopolitiche al mondo. Nel ciclo di faide e negoziazioni costanti, dal 1948 gli ebrei raggiungono tuttalpiù delle parentesi di stabilità relativa, come ci sottolineano alcuni abitanti della città: “Dieci anni fa avevamo un attentato ogni settimana, adesso invece la situazione è molto diversa. E se ancora resta la paura, vogliamo che a prevalere sia il desiderio di vivere e di divertirsi, come vale per tutti gli altri”. Per quanto necessaria, una tale fiducia porta il segno della provvisorietà, allo stesso modo dei muri innalzati a divisione e a difesa dai territori arabo-palestinesi; è la contraddizione irrisolta di un popolo che si sente costretto a chiudersi in sé, quando avrebbe piuttosto l’aspirazione a mostrarsi al mondo.
L’evoluzione di Tel Aviv ne è una dimostrazione efficace. L’iniziale progetto urbanistico di Sir Patrick Geddes, al ritorno degli architetti ebrei del Bauhaus cacciati dalla Germania, venne trasformato nel miraggio di una città moderna e perfetta. In qualche decennio la zona centrale fu trasformata in simbolo di ragione e funzionalità, al punto che l’Unesco ha recentemente deciso di includere la White City, 4mila edifici in stile modernista, tra i patrimoni dell’umanità. Eppure tutto ciò che si è sviluppato intorno a tale modello di pulizia mentale – se si esclude Jaffa, porto meraviglioso e antichissimo – è uno scenario deprimente e negletto di palazzoni anonimi. Un riferimento forte da cui partire e poi una quasi totale assenza di stile: dove potremmo individuare l’identità nazionale israeliana?
Per Israele il 2012 è un anno speciale da dedicare alla cultura, perciò sono state previste iniziative di vario genere in ogni stagione: aperture straordinarie di musei e gallerie, accessi agli atelier, danze e performance nelle strade, concorsi e festival, insomma ci sono la volontà e l’orgoglio di condividere i frutti di una ricerca che si ritiene matura. Oltre alla realizzazione del programma provvisorio, le ingenti somme di denaro impiegate dalla politica hanno permesso un’operazione culturale e architettonica di vaste proporzioni, di cui sono espressione la costruzione della Cinémathèque e dell’Habina Theater, nonché il rinnovamento del Tel Aviv Art Museum.
Al termine del 2011 inaugura il visionario Hert and Paul Amir Building, ovvero la struttura progettata da Preston Scott Cohen come estensione del museo d’arte cittadino. Simile nell’apparenza alle spettacolari realizzazioni delle archistar, l’edificio in realtà è la sintesi di questioni molto concrete, come spiega la responsabile Design e Architettura, Meira Yagid-Haimovici: “L’architetto e il direttore sapevano di dover risolvere alcuni problemi di partenza, soprattutto il rapporto con la parte più vecchia del museo e la conformazione dell’area disponibile. L’idea conseguita è insieme logica ed eccentrica. Una forma triangolare al soffitto, che chiamiamo lightfall, diventa il cuore della costruzione e la fonte primaria di luce. Intorno ad essa si sviluppano gli spazi rettangolari con funzione espositiva”. Questo gioco di forme geometriche, che all’esterno si conforma al paesaggio circostante e all’interno crea intersezioni spaziali imprevedibili, ha davvero un potente effetto fascinatorio.
Il concept culturale del museo segue una doppia direzione. Da una parte il percorso storico dell’arte israeliana, affrontato per periodi cronologici e movimenti, secondo le intenzioni di Ellen Ginton, senior curator of Israeli Art: “Nei primi decenni del secolo scorso gli ebrei in cerca d’identità amavano rappresentarsi secondo ogni fisionomia sociale disponibile: uomo arabo, contadino del kibbutz, bohémien a Parigi… Con l’avanzare delle avanguardie, invece, emersero le diversità, ogni artista si sentiva un elemento sociale a parte. Nel periodo più recente l’attenzione è andata soprattutto alla questione politica e territoriale”. Dall’altra parte, è in fieri un’intensa ricerca sull’arte contemporanea straniera, esordita con Shevirat Ha-Kelim, la più grande installazione site specific realizzata da Anselm Kiefer (che, ricordiamolo, nella sua spasmodica ricerca dei significati reconditi della storia, da qualche anno è giunto a una conoscenza approfondita dello gnosticismo e della Kabbalah ebraica).
L’evento centrale nell’anno della cultura, in quanto indaga sullo stato dell’arte contemporanea nel Paese, è Fresh Paint. Una fiera, giunta alla quinta edizione, che prova a distinguersi attraverso alcune particolarità dalle sorelle maggiori internazionali; la sede che cambia ogni anno, lo spazio espositivo condiviso tra gallerie e artisti non ancora rappresentati (selezionati nei mesi precedenti da una commissione di curatori e operatori), la volontà di coinvolgere un pubblico non specializzato. Inoltre – scelta discutibile – l’esclusione pressoché totale degli stranieri. Ritorna qui la contraddizione: l’arte israeliana quasi si compiace di appropriarsi delle modalità concettuali e formali dell’Occidente, salvo poi operare una difesa postuma, e per forza inefficace, della propria incerta personalità.
È appunto il peso di un’eredità che si aspira a superare senza riuscirvi a bloccare la qualità media delle opere a un livello di sufficienza. Da questa impasse si può uscire solo con l’approfondimento delle specificità, come confermano i nomi più interessanti della scena nazionale: Menashe Kadishman, grande padre della ricerca artistica negli ultimi decenni, celebre la sua installazione Shalechet, con tante piccole facce di acciaio in memoria dell’Olocausto, e i molti dipinti raffiguranti pecore; Dani Karavan, protagonista mondiale dell’arte ambientale; Adi Nes, conosciuto anche in Italia per le sue rivisitazioni in chiave militaresca o quotidiana degli episodi biblici; un gruppo nutrito di giovani promesse tra cui Ben Hagari, Matan Mittwoch, Hilit Kadouri, Igor Skaletsky,Liron Krool.
Riconosciuto lo sforzo mirabile che Israele sta affrontando per apparire come una dimensione globale, in cultura e in arte – a Tel Aviv ci sono circa 60 gallerie, e qui sta investendo anche il nostro Ermanno Tedeschi – viene naturale auspicare che il mimetismo ancora troppo presente costituisca soltanto una prima e necessaria fase d’evoluzione. Dai testi sacri alle diaspore ripetute, fino all’incubo della Seconda guerra mondiale, sappiamo che la tradizione e le vicende dell’ebraismo sono, in ogni senso, irripetibili: un segno tanto importante può diventare seme di una nuova primavera. Trascorso il tempo della fuga, della persecuzione e del ritorno, ora è giunto il momento di affermarsi.
Matteo Innocenti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #8