Una sequela in scorrimento di mostriciattoli disegnati con lo stile elementare e giocoso degli anime, si rivela essere la semplificazione simbolica del nostro mondo economico; lo spettatore può impugnare un joystick ed abbattere ogni figurina a suo piacimento, innescando al contempo delle precise reazioni sui social networks: a questo punto si presume che il protagonista dell’interazione abbia raggiunto, o sia stato messo in condizioni ideali per raggiungere una più ampia coscienza geopolitica. Una manciata d’immagini straviste in televisione e su internet, ma proposte in modalità differente – anche di pochissimo, a volte la diversità è solo il contesto di esposizione – dovrebbero permetterci di comprendere i complessi meccanismi che regolano la manipolazione massmediatica. L’invito a fare un segno sul muro, si fa occasione per riscoprire la propria identità civile.
L’eccesso di verità politica che l’arte contemporanea presuppone per sé, con l’aggravante delle intenzionalità pedagogiche, è quanto di più deprimente e ridicolo potesse accaderle. Per vari motivi.
Innanzitutto perché anche ammettendo per via teorica che sia possibile informare sui fatti senza allo stesso tempo operarne una mistificazione, a tale compito assolve già il giornalismo; non si comprende come mai l’arte, disponendo di mezzi e potenzialità che evidentemente da sempre puntano ad altro, dovrebbe fare altrettanto. Anche le ragioni di alternatività non hanno consistenza, dato che già esiste una controinformazione diffusa su canali per definizione ristretti ma lo stesso più ampi, per la finalità proposta, rispetto a quelli di un qualsiasi spazio espositivo. C’è inoltre da aggiungere: il nostro sistema comunicativo, giunto ad una fase di parossismo in cui conta più la quantità della qualità delle preposizioni, ingloba in sé ogni uso non comune dei propri media – in modo analogo al processo per cui la democrazia conosce ed è in grado di istituzionalizzare la diversità. Quindi l’arte, quando crede di decostruire e ricomporre in modo rivoluzionario i tasselli della società contemporanea, non si rende conto che vale il contrario, cioè che è essa stessa ad essere decostruita e ricomposta dalla società.
Così potremmo essere presi da un sospetto davvero fastidioso; e se la contestazione non fosse ormai che una maniera, o meglio un’etichetta in grado di rendere più velocemente riconoscibile e legittimato l’artista? E’ naturale che rispetto all’impresa originale dell’arte – intraprendere e continuare una ricerca che non risponda ad altro requisito se non la propria identità – supportarsi con le stampelle dell’opinionismo possa facilitare di molto la faccenda. Occorre porsi una domanda che troppo spesso, per pigrizia, evitiamo: chi sono davvero questi difensori della verità? Di loro sappiamo che idolatrano la democrazia, che si schierano a protezione delle minoranze, che odiano la violenza e la corruzione, che combattono contro la fame nel mondo, che sono intolleranti alle ingiustizie, che non danno troppa importanza al denaro e così via. Se consideriamo che quelli elencati sono tutti valori riconoscibili, e che un potente non cambierà certo idea dopo aver visto un’opera d’arte, viene da pensare che l’obiettivo dei nostri paladini non siano i valori stessi ma il culto, non dichiarato, della propria personalità.
Si sente l’odore pesante di una strumentalizzazione, fare del buonismo e dell’ovvio il mezzo di un ricatto morale, ovvero: io artista sono un uomo enormemente giusto, e affinché lo sia anche tu, caro pubblico, ti offro la stessa dignità al prezzo del tuo compiacimento per la mia opera.
Tra le distorsioni della democrazia si trova anche questa, ritenere che non esista una specificità dell’arte, e di conseguenza nominare artistiche l’ipocrisia, la banalità, la mediocrità.
Matteo Innocenti