Certe volte in penombra per un effetto di seduzione, altre al chiarore accecante di lampade al neon o soltanto con il bagliore incostante dei monitor; qualunque sia il tipo di luce lo sguardo non può sottrarsi alla constatazione della qualità più evidente e costante – con un’amarezza variabile secondo la disposizione a mentirsi: ci sono sempre le stesse persone.
Uno, due, tre, cinque, dieci, una picco di qualche dozzina nell’ora che sembra più giusta, poi la diminuzione progressiva fino al termine della scena. E la ripetizione non è solo numerica, identici ritornano anche i ruoli, i gesti e i discorsi. Il direttore che ora si mostra al massimo della cordialità dispensando gran sorrisi, il curatore oscillante tra la filosofia e l’intrattenimento, qualche gallerista o compratore a testa alta per ben significare l’importanza del proprio presenziare – purché i nomi in posta valgano qualcosa.
A seguire l’avanguardia reale c’è il variopinto e brulicante formicaio di giornalisti, amici fedeli, amici degli amici fedeli, appassionati alla cultura, scanzonati, modaioli, rivali attenti ad esibire la propria imparzialità, altri artisti che vogliono vedere e restare vigili, chi ritiene di dovere esserci. Umanità tanto diversa, ma uguale nell’inane tentativo di mostrare agli altri che si “conosce” e che dunque si è “conosciuti”.
Ora, sebbene la storia dichiari che dopo l’età dei lumi i privilegi di casta sono progressivamente scomparsi a favore di un’eguaglianza esemplare, bisogna notare che quelle stesse differenze aborrite per via ufficiale (e dunque falsa) dalla democrazia odierna, si perpetuano formalmente, e, fin dove possibile fattivamente, all’interno dei riti sociali che presuppongono una qualche forma di rappresentanza. Una dimostrazione esemplare sono appunto le inaugurazioni d’arte – vernissage o vernice secondo preferenze – il cui svolgimento prevede che gli elementi basilari della convivenza, ovvero il saluto e la parola, non siano mai “dati” ma “concessi”. Immaginiamo un incontro qualsiasi tra due persone: ebbene si trovano uno davanti all’altro non per volontà propria, bensì per la circostanza casuale che li ha fatti incontrare, dunque niente illusioni, il tempo che si concedono reciprocamente è limitato e prezioso, essendo entrambi in vista di un prossimo scambio.
Dunque, chi è l’uno e chi è l’altro? Chi è quello che concede e chi quello che riceve? La follia è duplice: sia perché entrambe le persone giurerebbero di essere loro a fare la concessione, sia perché questo errore pantomimico è serializzato con insistenza fino all’interruzione forzata della serata e del rito. A quel punto, spenta l’estasi momentanea e assolutamente inconsistente dell’orgoglio, resta soltanto la consapevolezza della propria solitudine di esseri-sociali, e la certezza di non avere visto le opere.
Mettendo su un piatto della bilancia il santificato frate e guardiano di porci Giuseppe da Copertino, “illetterato e idiota, fuori dal sospetto di qualsivoglia cultura”, e sull’altro una delle forme più raffinate del nostro sapere – l’intellighentia artistica, autrice di simili occasioni – concluderei volentieri con questo: se la cultura al proprio massimo può essere giusta, l’ignoranza invece può essere santa.
Matteo Innocenti