S’inserisce per strani incastri nell’aspra polemica intorno alla mostra Italics di Palazzo Grassi l’apertura fiorentina del museo monografico dedicato a Pietro Annigoni (Milano, 1910 – Firenze, 1998). Perché, nella generalizzata o forse soltanto rumorosa contestazione a Francesco Bonami, la sorte ha voluto che fra gli artisti citati da Achille Bonito Oliva come esempi poco rappresentativi della contemporaneità artistica italiana spuntasse anche quello del pittore in questione.
Certo, polemiche e dissapori notoriamente non conducono a granché, eppure questa sortita, nelle sue diverse implicazioni, ha funzionato almeno da elemento perturbatore. In arte come in ogni altro ambito, la validità delle scelte non è comprovata dal solo fatto di esser state praticate; allora, se è doveroso interrogarsi su un’impostazione critica che sovente tende a considerare naturale – persino necessaria – l’identificazione tra valore artistico e trasgressione formale, lo è altrettanto comprendere se l’antichità di Annigoni – cercandone tra più voci una sintesi scevra da ogni pregiudiziale – abbia costituito nel secolo delle avanguardie una diversità irriducibilmente fruttuosa oppure un’ostinata e sterile impermeabilità al proprio tempo.
“La scelta è maturata con il supporto di autorevoli esponenti del mondo della cultura e dell’arte. Perciò più che di una mera operazione di vendita si è trattato di creare un’esposizione permanente che fosse omaggio cittadino a uno dei più grandi pittori del novecento”. Non ha dubbi in proposito l’avvocato Michele Gremigni, supervisore del museo nonché vice-direttore dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. E appunto l’Ente è stato il promotore essenziale dell’iniziativa, allorché con un tempestivo anticipo su una società finanziaria inglese ha acquisito la collezione dai figli dell’artista e le ha dato opportuna collocazione all’interno del complesso di Villa Bardini.
Si ricordi che Pietro Annigoni, la cui patria elettiva fu Firenze, connotò la propria attività – ininterrotta dagli anni ‘30 alla fine del secolo – per una strenua adesione formale al vero, con riferimenti tanto espliciti alla grande tradizione pittorica da venir presto considerato diretto discendente del Rinascimento, dei fiamminghi, del secentismo. Soprattutto gli dette fama e riconoscibilità la ritrattistica, sia nella versione introspettiva dell’auto-rappresentazione che in quella d’incarico – quasi un ritorno al mecenatismo – per personaggi del calibro della Regina Elisabetta II.
Osservando la selezione di opere per la mostra inaugurale, circa 120 di un corpus molto più vasto, se ne rimedia una sensazione di dominio tecnico assoluto, spaziante dalla tempera grassa all’olio su legno e su cartone, dall’affresco alla matita fino alla commistione di pratiche diverse. Né possono sfuggire le varie evocazioni tematiche di noti precedenti, per esempio: Eremita che chiama da San Gerolamo penitente di Dosso Dossi, Autoritratto del 1946 dalRitratto del padre di Albrecht Dürer, Il fattaccio da “La donna pugnalata dal marito”di Tiziano.
Per la collocazione delle opere è Rossella Campana, ordinatrice del museo, a fornirci le relative spiegazioni: “La sistemazione segue solo in parte il criterio cronologico, soprattutto si adegua alla condizione di collezione famigliare. Si hanno, tra le altre, una sala di ritrattistica collegata a una riproduzione dello studio – luogo in cui l’artista creò – e contenente il ciclo delle grandi Solitudini; inoltre un corridoio affacciato sull’area intorno al Ponte Vecchio dove sono esposte fototipie, schizzi, disegni con soggetto la distruzione lasciata dalla guerra sul quartiere stesso”. E il restante materiale? “Il museo prevede una sorta di ciclicità, regolarmente verranno presentate altre sezioni della collezione nonché altri argomenti”.
Vari quindi gli sforzi, le idee, e però il risultato non è del tutto convincente. Perché se è indubbio il savoir faire di Pietro Annigoni – in tal senso fu realmente un grande del Novecento – la sua capacità di approfondire il discorso artistico e di renderlo assolutamente personale appare oggi molto minore. Il limite del pittore non fu quindi nella mancata forzatura dei termini – non fosse altro perché un approccio così precisamente formale in quel periodo significava comunque, per contrapposizione, infrangere le regole – piuttosto nel miraggio costante e invasivo di un passato che non poteva più essere, i cui risultati mai uscirono dai confini dell’imitazione e della maniera. Torna alla memoria il neoclassicismo idealizzato di Winckelmann e il suo scrivere di Mengs: “Egli è sorto come una fenice dalle ceneri del primo Raffaello”.
Potrà magari stemperare la delusione di chi sperava in una scelta più coraggiosa un appropriato utilizzo dello spazio Bardini Contemporary, piccola sala per le esposizioni di giovani artisti italiani e stranieri, parte del complesso insieme al Museo Cappucci e ai giardini.
Matteo Innocenti
Museo Pietro Annigoni – Villa Bardini
Costa San Giorgio, 2 – 50125 Firenze