È evidente che la differenza tra questa 68esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e la precedente non riguarda il livello artistico generale, in entrambi i casi discreto, ma la scelta del film premiato con il Leone d’Oro. La giuria presieduta daDarren Aronofsky, in competizione l’anno scorso con Black Swan, e composta tra gli altri da Mario Martone e Alba Rohrwacher, ha avuto il coraggio di scegliere su basi primariamente estetiche, trascurando le ragioni ordinarie della “convenienza”: il Faustdi Aleksandr Sokurov, tratto dal colossale poema di Goethe, si è imposto da subito e in modo netto su tutte le altre pellicole in concorso, Cronenberg, Polanski o Clooneyche fossero.
Un’opera d’arte aldilà delle limitazioni tra generi cinematografici, in grado di rinunciare alla formula usuale della storia semplice dallo stile accattivante, e di creare una sintesi originale tra sperimentazione narrativa e visiva.
Del resto Sokurov, ascoltato all’Università Ca’ Foscari durante un incontro con gli studenti il giorno precedente alla vittoria, ha dimostrato di possedere una personalità non comune. Intriso di cultura umanistica, più a suo agio con il classico che con il contemporaneo – salvo poi essere lui stesso un innovatore, per felice contraddizione – il regista, piuttosto che parlare del proprio cinema, ha preferito approfondire un discorso sulla perdita della spiritualità: “Ogni generazione ha un problema, chi la guerra, chi la ricostruzione. Adesso che cosa abbiamo? Un disequilibrio all’interno della società: il consumo e il rifiuto della cultura passata ci stanno riportando a uno stato di barbarie. Prima erano gli intellettuali ad andare in avanscoperta, per ottenere nuove conquiste. Oggi invece a farlo sono i grandi marchi come Sony e Apple. E anche se non sembra, nonostante lo sforzo della televisione per convincerci del contrario, questo sistema non è normale. Io la chiamo armata scientifico-elettrica”.
Dopo Hitler, Lenin e Hirohito, il Faust ha concluso una tetralogia sul potere: tre personaggi storici e uno leggendario come exempla dell’unione di bene e di male, entrambi elementi fondamentali per la conoscenza, ovvero per quell’impulso divino e diabolico insieme, che ci spinge a sperimentare il mondo.
L’Italia esce meglio rispetto allo scorso anno, oltre al Premio Speciale della Giuria aEmanuele Crialese per Terraferma e al Leone del Futuro a Guido Lombardi per Là-Bas, si sono rivelate piacevoli sorprese, sebbene non indenni da ingenuità, anche le opere prime del disegnatore Gipi (Gian Alfonso Pacinotti), L’ultimo terrestre, e Cavalli diMichele Rho. Tra gli autori ormai “storici”, ma che ancora dimostrano un interesse vivo per la ricerca, Ermanno Olmi con Il villaggio di cartone, una storia fortemente simbolica sul tema della convivenza tra culture diverse, e Marco Bellocchio, premiato con ilLeone alla carriera da Bernardo Bertolucci e presente con la versione ri-montata diNel nome del Padre, uno dei suoi film più importanti.
Le contaminazioni con l’arte contemporanea, ormai è una consuetudine, sono state riservate alla sezione Orizzonti (che approfondiremo con un secondo reportage nei prossimi giorni); non a caso nella giuria c’erano Odile Decq, architetto del Macro, eStuart Comer, curatore della sezione cinematografica della Tate Modern di Londra. Tra le opere, Lung Neaw Visits His Neighbours di Rirkrit Tiravanija, Black Mirror at the National Gallery di Mark Lewis e il caso di Piattaforma Luna, cortometraggio diretto daYuri Ancarani e prodotto da un inedito Maurizio Cattelan “in pensione”, chissà se per burla o in modo veritiero. Tra le curiosità, l’eroica proiezione 24h di The Clock, l’opera diChristian Marclay che ha vinto il Leone d’Oro per il migliore artista alla Biennale d’Arte, e alcuni cortometraggi di Mario Schifano in versione restaurata.
Può darsi che questa sia stata l’ultima direzione artistica di Marco Müller, giunto al termine del suo secondo mandato. Alcune voci lasciano trapelare la possibilità di un ulteriore rinnovo; in ogni caso, volendo tirare un bilancio, si può affermare che il lavoro del critico-produttore romano – ma internazionale per origini familiari e influenze culturali – si è dimostrato solido e costante nella strutturazione delle varie sezioni della mostra, nella diversificazione delle proposte, nella capacità di attirare e selezionare gli autori. Auguriamoci che la prossima nomina coinvolga una personalità altrettanto competente, senza il ricorso a quelle dinamiche ruffiane e cialtrone, insomma da politicanti, ormai infestatrici di quasi tutta la dimensione sociale e culturale italiana.
Matteo Innocenti
(Artribune)