Four easy pieces
Se la singola parola ha rilievo di designazione e, quando è realizzata aldilà delle cose apparenti, poetico – ma in entrambi i casi vige per lei un’ampia discrezione: come contesteremmo il vocabolo rosa a significare il fiore di rosa? – l’esordio del discorso comporta invece la responsabilità, poiché il suo procedimento già attiene all’avvenire del mondo (o meglio, alla continua attività di conoscenza e di interpretazione che su esso noi esercitiamo).
In tal senso mi sembra originale e interessante la pratica per cui un’opera d’arte – un’installazione, considerandone le dimensioni in continua espansione – viene proposta in più occasioni, dentro differenti contesti, verificandone i caratteri di partenza o facendo sì che ne venga acquisendo di nuovi. Questa costante alterazione dello “stesso” è come una modulazione di parole, appunto un discorso che ci rimanda a una dimensione meta-artistica – costituita da azione e riflessione a riguardo del farsi stesso dell’arte.
Le artiste Emanuela Baldi, Manuela Mancioppi, Tatiana Villani, invitate circa un anno fa a ideare un progetto declinato alla disponibilità e alla condivisione – da Pamela, Rachel e Dominique dell’associazione Artforms di Prato – decisero di recuperare una quantità assai consistente di tessuti industriali, in prevalenza scarti di lavorazione o rimanenze, così da assemblarli in un’installazione scultorea espansa che dall’interno dello spazio di archeologia industriale Interno8, “invadendo” suolo e pareti, si protendesse anche verso l’esterno: così l’inizio di Fuori dal Trecciato. Tramite modi vari di comunicazione, dal lasciare indizi minimi nelle vie della città al comune passaparola, vennero coinvolte numerose persone nella realizzazione concreta del progetto, in un contesto di reciproca conoscenza e di scambio. Secondo la stessa intenzione dialogica fu proposto ad un’altra artista, Valentina Lapolla, di contribuire con una documentazione/interpretazione delle varie fasi di sviluppo del trecciato.
Da parte mia, invitato a scrivere un testo critico di accompagnamento, decisi di sviluppare una riflessione secondo una modalità non univoca, ovvero trattare del processo attraverso i punti di incontro – quattro: four easy pieces – tra alcune delle sue caratteristiche precipue e alcuni dei temi che ho sviluppato e tuttora sviluppo con la mia ricerca. Mi sembrò così di rispettare le motivazioni a fondamento di Fuori dal Trecciato, in primis riferibili al confronto. Nel periodo successivo ci sono state due occasioni di attività ed esposizione, al Mumat di Vernio (Museo delle macchine tessili) e alla Gamc di Viareggio. Adesso, con gli ulteriori sviluppi a Casa Mannozzi a San Giovanni Valdarno, a cui certo seguiranno tappe future, muovendo dalle ragioni iniziali ho proposto alle artiste un esperimento: così come muta progressivamente l’installazione nella resa formale e in certi suoi fattori significanti, anche il testo dovrebbe variare, ogni volta tramite un’attività di revisione, approfondimento, estensione – instaurare insomma un legame di corrispondenza con il procedere dell’opera.
1. La strategia delle piccole azioni
È ragionevole che il nucleo delle relazioni umane, ovvero l’originaria organizzazione sociale in risposta alla necessità di ottenere insieme quanto alla singola capacità veniva precluso, possa nella sostanza essere riferito a limitate nel numero, semplici ed efficaci azioni sempre ripetibili. In ragione di tale presupposto scaturisce un senso di contrasto il pensare ad un’attualità che pur intensificando sul piano nominale le occasioni di incontro, conoscenza, scambio tra l’io e l’altro, si sta evolvendo – ma rispetto a sé stessa, non rispetto ad un assoluto – nella direzione di progressive smaterializzazioni delle modalità stesse d’attuazione. Se per certi aspetti si tratta di un processo di trasformazione formale verso la virtualità, idoneo a colmare distanze spaziali e dialogiche prima appena immaginabili, la sua complessità comunque non ci esime, anzi ci stimola, a porci domande sulla perdita di contatto individuale e fisico con il mondo.
Ci accorgiamo bene di come le disponibilità della tecnica e della tecnologia, a dispetto di un’apparente tensione partecipativa, rivelino al fondo – nei modi predominanti della loro proposta e del loro uso, i quali sono per vari motivi improntati alla superficialità – una pericolosa duttilità nell’esercizio del disorientamento e del controllo. Tale esercizio ci è manifesto attraverso i suoi effetti: guerre definite di giustizia o di terrore, indici discrezionali di speculazione finanziaria, crisi delle politiche statali, illimitati database di informazioni a uso incontrollato, dispositivi iper-funzionali per bisogni indotti… allora, venendo al nostro contesto, risulta normale domandarsi come si ponga l’arte nel confronto con tali situazioni. La risposta che ritengo più plausibile è che essa sia in ritardo, o meglio: coinvolta nelle dinamiche in atto, spesso senza averle sapute presentire e senza nemmeno influirvi, si trova al livello minimo dell’importanza che sempre ha avuto in seno all’umanità. Nel subire la velocità di quanto le cresceva intorno l’arte ha spesso risposto con tentativi sterili di emulazione (altra cosa sarebbe stata l’emulazione all’eccesso, fino all’esplosione delle dinamiche di riferimento), la cui traduzione corrisponde, per esempio, alla serie amplia di ipervalutazioni delle opere, ai meccanismi torbidi di legittimazione, alla falsificazione patologica nei rapporti professionali e così via, senza che in contrasto a ciò sia conseguito un fiorire della sensibilità.
Non è questo il contesto per un approfondimento di una questione tanto complessa, mi interessa però rilevare un fatto conseguente e in sé paradossale. In una fase in cui come mai prima si dispone di una palese libertà di espressione – anche se ciò non comporta che tale libertà sia fattiva – assistiamo a un desolante conformismo delle idee, delle motivazioni e dei caratteri dell’espressione. Tra gli opposti dello spettacolarità e dell’autoreferenziale, l’arte perlopiù si contenta di lasciare tracce labili e non incisive.
Ritornando all’inizio. Nel tentativo di ricostruzione di un percorso non subìto ma determinato, tra le varie eventualità la pratica artistica può ricorrere al recupero o all’interpretazione di piccoli gesti; gli stessi che nel corso delle epoche ci hanno connotato, per la loro funzione e per il loro significato, in quanto genere umano. Qui si tratta dell’intreccio di stoffe con le mani, “fare” che negli avvicendamenti storici delle civiltà agricole è stato in rapporto col ritrovarsi e il disporsi in cerchio raccontandosi delle storie – costituzione spontanea di un modello minimo ma autonomo di comunità.
Se anche non è irrilevante il fatto per cui a breve entreremo nella fase in cui nessuna delle generazioni in vita avrà sperimentato nella loro effettività azioni come questa o altre similari, il nostro discorso intende concentrarsi su un altro punto. La strategia delle piccole azioni indica che nella dimensione dell’arte è possibile recuperare gli atti “eliminati” – anche fosse entro un tentativo a vuoto, non ha importanza – per sapere che essi sono esistiti e che, se noi lo vogliamo, hanno ancora facoltà di esistere: cioè l’orizzonte della nostra civiltà non deve per forza coincidere alla sparizione di ogni “prima”. Restiamo noi a decidere quanto tenere e quanto lasciare, seguendo una volontà cosciente, mentre quella novità che esclude per pregiudizio o ignoranza quanto l’ha preceduta, a un certo punto si dimostrerà debole, poi invivibile.
2. Costituzione nomadica
Gilles Deleuze e Félix Guattari in Mille Plateaux (1980) sviluppavano una riflessione sul concetto di rizoma in opposizione a ogni gerarchia di tipo arborescente “Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante”; con un’anticipazione considerevole, nonché con attitudine propositiva, il duo filosofico prospettò un sistema di pensare e di agire che in effetti si sarebbe verificato nelle condizioni culturali e, ancora, tecnologiche a venire; e la cui emergenza ha mostrato di essere una dinamica d’espansione in “orizzontale”, contraria al senso di verticalità ma non di essa sostitutiva, il cui modo di connessione è la congiunzione molteplice “e…e…e”. Oggi, almeno in ambito di comunicazione e informazione, potremmo ritenere il link quale elemento cardinale e rivoluzionario di tale movimento, data la sua apertura, pur a partire da un punto iniziale determinato, a un’imprevidibilità di connessioni potenzialmente infinita (o grande quando la crescita progressiva dello spazio web).
Aldilà delle attribuzioni di contesto Fuori dal Trecciato mi sembra avere attinenza con tale riflessione, per via di alcune sue caratteristiche declinate a uno sviluppo in fieri. Un numero ampio e crescente di persone interviene partecipando attivamente alla sua realizzazione – chi già sapeva come fare, a chi è stato spiegato – ognuno contribuisce con uno o più frammenti a ciò che, secondo combinazioni non prevedibili, diverrà l’effetto complessivo (effetto raggiunto entro un termine stabilito ma in futuro sempre prorogabile grazie al riattivarsi dell’azione). Ne risulta un movimento né preordinato né univoco, diramato in tante direzioni quante sono possibili nell’area a disposizione, ed è proprio la mancanza di un centro a farsi testimonianza dell’intera variabilità intercorsa nella formazione dell’installazione: l’insieme non corrisponde alla somma delle singole parti ma a un’immagine, bloccata ad un certo momento, del continuo avvicendarsi delle relazioni.
Sono valori che riguardano anche il rapporto con la specificità del luogo. La crescita degli intrecci è organica – in un senso fisiologico, se la intendiamo come un corpo in crescita – e perciò procede per adattamento nell’ambiente in cui si trova, avvolgendo suolo, pareti, elementi occasionali d’arredo e di lavoro. In ogni caso l’estensione raggiunta già rimanda ad una fase successiva, ad altri spazi e collegamenti (e si tratterà di una prosecuzione, non di un superamento). La sua costituzione non sottende limiti precisi, la fissità non le è propria; ciò la rende un’installazione “nomadica”.
3. Autorialità aperta
Di un differente approccio autoriale ha avuto intuizione e poi capacità teorica Nicolas Bourriaud nella sua Esthétique relationnelle (1998) – coniazione che al pari di ogni altra di istanza storiografico-artistica ha sofferto della strettezza dei termini, non fosse altro perché ogni opera d’arte pone di necessità delle relazioni – rilevando la tendenza che dall’inizio degli anni novanta assumeva costanza nel progettare le opere d’arte anche come sistemi per lo scaturire di rapporti tra arte e pubblico, talvolta all’interno del pubblico medesimo.
Fuori dal Trecciato s’inserisce in tale dimensione, lungo però la scia di un tempo che già è molto cambiato, ovvero con conoscenza e coscienza delle modalità ulteriori che da quella fase si sono solidificate.
L’installazione viene offerta alle persone come un’occasione; tutta la sua superficie è percorribile, tangibile, utilizzabile. Le persone possono starvi sopra, lì parlare, riposarsi, guardarsi intorno, discutere, assistere ad eventi. Vi rientra anche l’interazione con altri apporti. Se già questo testo, che scaturisce dall’incontro con le artiste e con la loro idea, si pone a metà tra le specificità di un’opera e quella di una ricerca critico-curatoriale, processo analogo di reciprocità avviene con il contributo di Valentina Lapolla. Invitata a intervenire in modo libero e personale nella documentazione dell’intero processo già nella prima occasione di Prato, la sua scelta si era indirizzata a una traduzione degli elementi primari: la registrazione di tutte le fasi di lavorazione collettiva delle stoffe – costituita da suoni, voci, rumori, silenzi – veniva trasformata in un’emissione di vibrazioni, quanto induceva il movimento di piccole sculture formate con staffe minime a sostegno di anelli e perline da bigiotteria. Da qui la generazione di un nuovo sonoro, trasfigurato. Chincaglierie è il tentativo, meditato da un’interpretazione artistica, di restituire in forma udibile tutta l’energia di un’azione svolta per fasi. E che adesso torna a San Giovanni Valdarno, con la stessa sostanza ma estensione maggiore.
Si comprende allora a quale livello, pur nel rispetto di un’autonomia formale e significativa, venga stimolata una differente concezione dell’autorialità. Considerandone gli ultimi sviluppi, ma si tratta solo di un’ipotesi personale, l’installazione in futuro potrebbe procedere secondo una duplice tendenza: da una parte il confronto con le specificità dei luoghi, dall’altra il porsi quale base di sostegno e di stimolo per il legame con altre opere e altri contributi testuali sempre in variazione: un recettore di esperienze nel segno della comune ospitalità.
Credo che sarà molto discussa nei prossimi anni la questione dell’apertura della componente autoriale, soprattutto per quanto riguarderà l’equilibrio tra la causalità dell’opera e la serie di effetti che le conseguono. Alcuni modi esperiti in questi anni in vari ambiti – nella estrema diversità c’è un comune denominatore in casi di produzione/fruizione come quello del crowdfunding, del file sharing, dell’open source, della scrittura collettiva e così via – pur non ancora definitivi risultano indicativi di esigenze che dovranno venire soddisfatte. Del resto la nostra concezione “forte” della proprietà intellettuale non è l’unica valevole a livello storico; a titolo esemplificativo basti pensare alla diversità rappresentata dalle icone sacre, alla pluralità di contributi nelle prime forme drammatiche teatrali poi presenti nella commedia dell’arte e ancora sino al periodo elisabettiano, all’anonimato dell’artista medievale. Sostenere che vi sia stata un’evoluzione progressiva da allora ai nostri giorni mi pare più semplicistico che corretto; l’autorialità non è un valore assoluto verso cui giungere, ma la conseguenza dei rapporti relativi, e perciò mutevoli, tra l’artista e l’ambiente nel suo complesso. Niente esclude, anzi molto suggerisce, che modalità più affini a una soggettività sfumata, in cui abbia maggiore peso il contributo dato all’umanità – in termini di espressione, ricerca, tecnica – piuttosto dell’atto volitivo tendente a un’affermazione soprattutto di sé, troveranno corpo nella piena definizione dell’epoca futuribile.
4. Un’eccezionale normalità
La scelta originaria di ricorrere ai tessuti in una città che con essi ha costruito carattere e ricchezza, non intendeva avere significazioni sociali particolari (crisi economica, conflittualità con i gruppi immigrati, inefficienza delle risposte politiche ecc…); ciò avrebbe comportato l’addentrarsi in un contesto esplorato fino all’abuso, ad alto rischio d’ipocrisia.
Pur non essendo privo di importanza che si tratti di materiali di riciclo, secondo l’obiettivo di una riattivazione creativa e senza ulteriore dispendio, l’aspetto fondamentale si lega in primis alla necessità: gli scarti di stoffe stavano a materia comune di Prato, e perciò rappresentavano l’elemento più consono ad instaurare un dialogo – così come nella scelta di una lingua si ricorrerebbe a quella parlata in loco.
I tessuti, passati di mano in mano e in continua trasformazione, sono un mezzo effettivo di contatto tra l’arte e le persone; tale positiva strumentalità è quanto viene trasferito da città a città, da luogo a luogo, ricercando ogni volta la possibilità di un’espansione e di un arricchimento.
Ciò è tangente a una delle controversie più difficili in seno all’arte contemporanea, posta ormai da vari anni, ovvero lo iato tra le opere e la loro percezione diffusa. Dati i tanti fattori della situazione non ha senso illudersi che possano esistere soluzioni uniche; all’estremo sarebbe ingenuo e scorretto anche il ritenere che un’installazione partecipata debba coinvolgere più di un’installazione in sé chiusa, oppure che un tema politico appassioni più di una questione estetica.
Allora che cosa possiamo fare noi, che siamo attivi in questo ambito, per avvicinare di nuovo i due elementi della separazione? Io ritengo che sia necessario agire al massimo del valore, della proposizione e della sincerità. L’allontanamento scaturisce da opere e da scelte critiche che con atteggiamento calcolato, mutatis mutandis, propongono aspetti di forma e di contenuto “canonizzati” – dunque più accettabili per gli addetti ai lavori e per il mercato – ma del tutto distanti alla reale sensibilità del presente o del futuro; l’allontanamento scaturisce per il continuo replicarsi di sguardi proiettati alla superficie piuttosto che alla sostanza delle cose.
Fuori dal Trecciato è un’azione normale che si conduce con atteggiamento normale, ed è proprio ciò che con naturalezza ne scaturisce – lavorare insieme, conoscersi, parlare in modo scherzoso o serio, assistere a qualcosa – a valere da testimonianza eccezionale di una necessità attuale. Sentiamo il bisogno di ricostituirci a partire da comunità minime ma meglio partecipate, in cui l’identità dell’uno si senta attratta, e non sopraffatta, dalla moltitudine che le consegue. Potremmo notare come le intenzioni generali della politica a riguardo delle integrazioni siano perlopiù intrise d’ipocrisia, e che perciò ne derivino scarsi risultati anche quando vi si puntino attenzione e risorse; lo faremmo non per polemica, piuttosto per affermare che un esito assai diverso hanno quelle azioni che nascono dall’indipendenza dei singoli (noi): soltanto in una reciprocità genuina lo scambio io-altro, qualsiasi siano le provenienze e gli interessi, trova modi, facili o difficili che siano, di risolversi in qualcosa.
Declinato all’arte credo che ciò, ora, divenga determinazione a proporre alternative alle dinamiche incontrollabili e nocive del mondo dominato dal consumo e dall’omogenizzazione. Dunque accanto alle macerie, reali e simboliche, non accettare per inevitabile il collasso: interrogarsi, ipotizzare e costruire ancora, così da determinare relazioni umane improntate al rispetto della dignità universale.
Matteo Innocenti