Con la formula Pittura Analitica s’intendeva, alla fine degli anni ’60, non già un atteggiamento d’analisi rivolto verso l’esterno, quanto una riflessione sulle possibilità ulteriori del dipingere, in contrasto con chi della pittura stessa preconizzava insistentemente la morte.
Gianfranco Zappettini (Genova, 1939; vive a Chiavari, Genova) fu esponente di spicco nel gruppo degli analitici e di esso condivise appieno la sistematicità; lo riprova il fatto che ad oggi l’artista non ha mutato direzione. Questo però non dia adito a equivoci, poiché coerenza non significa arroccamento, e se la sostanza della domanda è rimasta inalterata, ne sono comunque stati riformulati i termini. Né si deve considerare l’interrogativo inattuale; se a ogni variazione dell’assetto sociale corrispondono nuovi dubbi sullo stato della pittura – cioè circa il suo senso e la sua possibilità all’interno di un sistema di consumi e automazioni progressive – significa che la questione non è stata ancora sanata.
In realtà fu lo stesso Zappettini, durante il primo periodo, a cercare di riqualificare il mezzo attraverso l’azzeramento dell’intervento artistico. Velature successive di bianco, date con un rullo da imbianchino, s’accumulavano sul nero fino a raggiungere una soglia critica. A procedervi oltre si sarebbe avuta una superficie diafana e asettica, indistinguibile dal lavoro di un qualsiasi manovale. Fermandosi al suddetto punto, s’otteneva invece una gradazione liminare, capace di suscitare un interesse visivo e riflessivo.
Con l’ultima serie – La trama e l’ordito – il discorso ha assunto una diversa morfologia, riferibile tanto al logos quanto alla spiritualità. Partendo dai valori plastici fondamentali di linea e colore, la ricerca viene ora attuandosi sul filo di un’interruzione: quanto separa lo scomporsi dal ricomporsi. D’acchito s’impongono all’occhio i tratti di spago, alcuni paralleli altri irregolari, ricoperti come il resto della tela da pigmenti di forte luminiscenza. Sono, tali segni, come una trasposizione tridimensionale del fare pittorico e delle dinamiche del pensiero, tant’è che potremmo definirli un diagramma.
A livello più dettagliato si rileva una griglia, minuta e fitta quanto la trama delle stoffe. È lo strato che sottende all’opera, nelle cui increspature si fa evidente il cangiante tonalismo dei colori, cioè un fluire continuo da intensità di rosso a intensità di blu e viceversa.
Appunto tra il macro e il microscopico dell’opera s’attua la già citata interruzione: certo, appuriamo la presenza di picchi critici nell’andamento lineare, ma come stabilire se essi siano traccia di disordine in formazione oppure di ordine che si ricostituisce? E la sottile striscia di colore mancante, il non finito di Zappettini, sta lì a indicare un inizio perenne oppure l’impossibilità della campitura a darsi come totale?
La soluzione è da cercarsi negli insegnamenti orientali: lo zen rivela che non esiste risposta perché non esiste problema, e che tra l’uno e il tutto non corre distinzione. Dunque, non si tratta più di riformare la pittura, ma di affrontarne via via aspetti specifici, perché così già si starà dimostrando la specificità del dipingere.
Matteo Innocenti
Gianfranco Zappettini – Tensioni nel colore
Galleria Santo Ficara
Via Ghibellina, 164r – 50122 Firenze