Non considero più il punto di vista dell’inventario burocratico, riguardante i futuristi che si sono dichiarati aderenti al movimento fondato da Marinetti, ma anche coloro che nelle idee futuriste hanno colto lo spunto per creazioni fotografiche, compresi autori celebri come Bricarelli o Moncalvo, che non hanno niente a che vedere con le attività polemiche, l’attivismo e il propagandismo futuristi. Nel centenario del Futurismo, lo storico può finalmente avere uno sguardo più sereno e interrogarsi sull’apporto generale che il ciclone futurista ha fornito alla cultura italiana.
Ne L’évolution créatrice, del 1907, Bergson formulava una critica puntuale del cinema e dell’immagine meccanica in un capitolo intitolato Il divenire e la forma. Implicitamente, Bergson sosteneva che solo la mano dell’artista poteva essere lo strumento attivo dell’élan vital, cioè avere la capacità, nella resa estetica, di cogliere lo scorrere in divenire di ogni aspetto della realtà. I futuristi, tranne forse Marinetti, aderirono pienamente a quest’idea. Boccioni, dopo l’esitazione iniziale, fu attaccato a Parigi da Léger, il quale accusava la pittura futurista di resa fotografica del movimento. Motivo che spinse Boccioni a condannare le esperienze bragagliane. Bisogna dire che Anton Giulio Bragaglia era radicale sul piano teorico, scrivendo che il fotodinamismo poteva addirittura sostituire la pittura stessa. Non potendo accettare il fotodinamismo, Boccioni lo condannò, causandone la fine. L’intervento creativo dell’artista, che per lui era un’esigenza inalienabile del Futurismo, fu realizzato poco dopo da Depero con la foto-performance, cioè manipolando l’immagine a livello di inquadratura, posa e scelta del soggetto. Questi sono i termini esatti del conflitto.
Che cosa l’affascina di tale rapporto?
Il movimento futurista, ideologicamente motivato dall’attivismo, dalla propaganda sociale e dall’evento rivoluzionario, ha perfettamente avvertito la capitale importanza dei mass-media in quanto strumento di persuasione e comunicazione, come provato dalle fotografie di gruppo e di eventi futuristi, eppure non è riuscito a vedere nella fotografia e nel cinema nuovi media artistici. Era a favore della tecnologia, eppure non seppe impugnare questi due nuovi linguaggi tecnologici per metterli al servizio dell’arte.
Felicemente scombinata, come tutto ciò che accade in Italia. Abbiamo il maggior numero di biblioteche sedicenti nazionali, un deposito legale vincolato alla città di Dante, un Opac delle biblioteche nazionali affidato a Bologna ecc. La storia della cultura italiana è decrepita, ma la nazione italiana è giovanissima, direi persino imberbe. Quindi c’è molta confusione istituzionale, ma questo talvolta produce scintille innovative davvero sorprendenti.
Di quale tipo d’organizzazione ci sarebbe stato bisogno?
Non saprei. Immaginare mostre esaustive, totalizzanti e impeccabili sul piano filologico come quelle organizzate dai francesi in una capitale considerata unanimemente vetrina della cultura nazionale è fuori portata per gli italiani. D’altra parte, la confusione e l’improvvisazione delle recenti iniziative che si sono svolte un po’ ovunque sono lo specchio di ciò che siamo: un popolo incapace di fare squadra, ma ricco di volonterosi, intuitivi, innovativi, dotati di vitalità indomita.
Nei miei scritti ho spesso ribadito che il secondo Futurismo non esiste. È una formula creata dai mercanti d’arte Arturo Schwarz e Luciano Pistoi nel momento in cui si cercava di capitalizzare e mettere in commercio la produzione di futuristi considerati minori. Tra il ‘73 e il ‘75 ho cercato di lanciare un’altra formula storiografica, che ho adottato anche nella mostra milanese, classificando il futurismo per decenni: il dinamismo plastico per gli anni ‘10, l’arte meccanica per i ‘20 e l’aeroestetica per i ‘30. Questa formula si sta imponendo come l’unica valida, soprattutto presso i giovani studiosi. Se lei, invece, per secondo Futurismo intende il lavoro svolto dai futuristi durante la dittatura fascista, penso che il mantenere viva la fiamma dell’avanguardia, della modernità e della libertà d’espressione in quel periodo si tratti di un valore eccezionale.
Da storico quando collocherebbe la fine del movimento?
Nonostante l’incertezza fino agli anni ‘70, ha oggi prevalso la visione di Mario Verdone, che vedeva nella morte di Marinetti la fine del movimento di cui era stato animatore. Una riunione organizzata da Benedetta Marinetti subito dopo la guerra esaminò la possibilità di rilanciare il movimento, ma la maggioranza dei futuristi si accordò per considerarlo esaurito in quanto tale, nonostante le idee e le ricerche sperimentali meritassero di essere ulteriormente sviluppate.
Certamente una non raggiunta maturità critica. Con la mostra organizzata a Milano ho voluto formulare una classificazione articolata, precisa e definitiva di cosa sia stato il Futurismo e di cosa abbia portato alla cultura italiana. La mostra ha avuto un grande successo di pubblico con 136mila visitatori, eppure il dibattito critico è stato deludente. Invece di studiare il Futurismo come patrimonio storico della cultura italiana, come valore identitario e come nascita di una nazione moderna degna della cultura europea, ci si perde ancora nell’animosità della condanna politica, della partigianeria ideologica e della polemica sterile. Come direbbe Vincenzo Gioberti, siamo ancora in epoca di Italo-Capuleti e Italo-Montecchi, di Italo-Guelfi e Italo-Ghibellini, in perenne attesa della nascita degli italiani.