Nel programma della X edizione di Firenze Suona Contemporanea, dal titolo Il respiro delle statue, tra gli eventi due performance di Vanessa Beecroft per il cortile di Palazzo Strozzi e per la Sala della Niobe delle Gallerie degli Uffizi – secondo l’intenzione a base della manifestazione di relazionare arte classica e presente, attraverso sperimentazioni e commistioni mediali.
La ricerca artistica di Vanessa Beecroft è attraversata per intero da un senso di classicità; il riferimento al classico, in modo particolare alla tradizione rinascimentale italiana, ne è un nutrimento sostanziale. Come da lei stessa dichiarato, il modo compositivo delle proprie performance risulta, oltre che dalla presenza centrale umana, dalla prospettiva, dal punto focale, dalla simmetria; il che la avvicina in misura paritetica alla pittura, alla scultura e all’architettura del passato – sebbene il riferimento alla seconda sia di solito considerato predominante e quello alla terza nullo o soltanto contestuale. Ciò detto prima di qualsiasi considerazione critica, come messa in questione della posizione che vorrebbe la Beecroft terribilmente limitata, per ragioni di mercato o di scarsezza immaginativa, dalla ripetitività: a parte il valore di una monotonia cosciente, che qui per ragioni di sintesi non si può considerare (ed anche nella monotonia “forzata” il tempo della critica potrebbe a posteriori rivelare segni di qualità non recepiti dal periodo contemporaneo), si tratta di uno stilema evidente che ha, tra le sue caratteristiche, il procedere per costanti, per affinamento piuttosto che tramite differenza. Non considerare ciò o riferirlo soprattutto a cause contingenti finisce col dare più informazioni sulla lente usata dall’osservatore piuttosto che sulla pratica autoriale.
C’è un altro aspetto essenziale e ricorrente, anch’esso testimoniato in intervista. Le modelle a cui la Beecroft ricorre, e con assai inferiore frequenza i modelli, hanno come precetto basilare il distacco da chi guarda, l’elusione di qualsiasi coinvolgimento con il pubblico. Il loro comportamento, pur all’interno di una partitura d’azioni predeterminata, dovrebbe infatti risultare naturale nello svolgimento: come se non ci fosse nessun altro ad assistere. Tale realtà che l’artista ha sempre voluto mantenere inaccessibile, fatta di carne ma in sé serrata, è una delle qualità ontologiche secolari della rappresentazione; la quale in certa misura resta sempre confinata in un oltre irraggiungibile – nonostante la più o meno marcata volontà mimetica o simbolica – per il fatto stesso di essere una cosa nel mondo ma non propriamente ciò che tramite lei si raffigura. Nello specifico l’immagine si rafforza per lo stare nella zona liminare tra il vero e il falso, se noi l’afferrassimo la sua ambiguità, e dunque la sua forza, decadrebbero.
Per queste ragioni ritengo che le performance di Vanessa Beecroft abbiano un esito migliore in contesti slegati dal quotidiano e dal mondano. Non mi riferisco tanto né solo al luogo, piuttosto al contesto e alle finalità. Le incursioni dell’artista nell’evento di moda, nel video o nella pubblicità sembrano per via antitetica “consumare” la tensione al classico appena descritta, e non per una qualche ragione di decoro. È che la voracità dell’istantaneo genera una contraddizione irrisolvibile rispetto ai presupposti di immobilità e di contenimento espresse dal portamento delle modelle: così queste esperienze in altri ambiti non sono considerabili necessarie alla ricerca originale, semmai, secondo una libera discrezione com’è lecito che avvenga, risultano primariamente utili alla carriera dell’artista entro il contesto allargato dell’industria culturale.
I due eventi in occasione di Firenze Suona Contemporanea costituivano un’occasione singolare per l’artista, dato il trascorso rinascimentale cittadino e quindi la possibilità o necessità dell’incontro con il passato. Luoghi scelti il cortile di Palazzo Strozzi e la Sala della Niobe delle Gallerie degli Uffizi (quest’ultima, come indicato dal nome, ospitante il gruppo scultoreo romano, da copia greca, raffigurante il mito secondo cui Niobe, per aver deriso la dea Latona che aveva generato solo due figli, Apollo e Artemide, fu punita con l’uccisione della propria prole, sette fratelli e sette sorelle, dalle frecce scoccate dagli stessi gemelli divini). Vi era anche l’introduzione di un nuovo carattere rispetto a quanto sinora realizzato dall’artista, l’accompagnamento musicale. Che in effetti ha determinato un differente esito.
A Palazzo Strozzi, nonostante l’accordo formale tra la storica architettura, così ordinata e simmetrica, e la disposizione delle oltre trenta modelle bianche e nere evocative del supplizio inflitto alla santa cristiana Giovanna D’Arco, si generava un senso di diacronia tra la sostanziale fissità della performance e il ritmo di The Holy Presence of Joan d’Arc del compositore minimalista afro-americano Julius Eastman (1940-1990).
Invece nella Sala della Niobe (in collaborazione con la designer Cristina Bomba) l’effetto immediato delle modelle – in questo caso venti, la loro pelle resa più opaca da un colore bianco marmoreo, il loro corpo insieme protetto e amplificato nei gesti da un tessuto trasparente – era di reale approssimazione tra essere umano e statua: la parte musicale, prevalentemente un respiro profondo ma non continuativo, un sospiro ad opera della compositrice statunitense Mary Jane Leach, si univa senza stacco alla visione. Non c’è necessità di molte altre parole, se non la constatazione di come il rapporto tra il contesto, uno tra i musei più importanti al mondo, il riferimento alla grecità ed ai suoi miti, e quindi l’azione attuale dell’artista venissero a incontrarsi armonicamente, con tutta una serie di conseguenze interpretative, varie ma che forse possiamo far convergere verso un punto: sia per vb83 e vb84 è l’ispirazione della donna e dell’uomo a dei modelli alti. Modelli da cui, pur con mutevole grado di aderenza dovuto ai caratteri delle fasi storiche, la nostra cultura deriva.
Matteo Innocenti