Jannis kounellis (Pireo, 1936), greco di origine ma italiano di appartenenza, esponente primario dell’arte povera e tra i “grandi” della scena contemporanea.
Carbone, legno, juta, pietre…con il trascorrere dei decenni l’artista presenta installazioni sempre più ampie, per arrivare infine ad ambienti “totali” carichi di fascino e di mistero: situazioni in grado di trasmettere, per via empatica, delle intuizioni poetiche sullo spazio, sulla memoria e sulla vita.
Iniziamo provando a dare una definizione di arte…
L’arte, prima che iconografica e illustrativa, è una questione linguistica. In quanto tale esprime molte cose, offre delle possibilità drammaturgiche.
Dai grandi del Rinascimento alle pitture nere di Goya, fino alla rivelazione di Le demoiselles d’Avignon: da dopo Picasso è impossibile immaginare l’arte senza una simile autonomia linguistica.
La lingua è una ricerca della verità?
Di quale verità stiamo parlando? I mangiatori di patate di Van Gogh è una verità ma non è la sola. Lo stesso vale per L’origine del mondo di Courbert. Ci sono tante verità quanti sono i pittori, i veri pittori.
L’aspetto simbolico, ermetico delle forme. Quanto riguarda il processo creativo delle sue opere?
Il simbolico è presente dappertutto, ma non è mai totalizzante per l’opera. Prendiamo per esempio Jackson Pollock; le sue pittore sono vicine all’epos eppure non si concludono in questo, ci sono molti altri aspetti: il lavoro sulla superficie come riflessione sullo spazio, il rapporto tra la tela – molto più grande di lui – e l’uomo, quella sorta di musica che sembrava emergere dai gesti d’artista. Pollock, se guardiamo da un punto di vista più ampio, è stato l’iniziatore di un’America sconosciuta.
Che cos’è invece la materia, sempre così presente nelle sue opere?
Non è davvero materia. Anche quando ho usato un quintale di carbone non l’ho mai considerato materia: sarebbe stato un concetto informale, e la mia generazione è nata artisticamente nel superamento di tale idea.
Il carbone è una presenza, che polarizza lo spazio pubblico e vi riporta il dramma che era in “esilio”. Recupero una drammaticità ben conosciuta dalla cultura occidentale: già in Masaccio, Caravaggio, Mantegna l’ombra non è mai dimenticata.
Questo presuppone un rapporto tra l’artista e chi osserva l’opera.
Tutto dipende dalla tua volontà di leggere. E’ evidente che l’arte ha bisogno di una lettura, senza di essa diverrebbe soltanto un capriccio. Lo stesso dobbiamo fare attenzione a non sconfinare nell’accademico: lo stile, a cui noi eravamo contrari, è accademia.
E’ cambiato molto il clima culturale, dai tempi del suo esordio a Roma?
Non è così facile stabilirlo…allora non c’era il predominio del mercato. Non penso che il denaro sia satana, eppure oggi mi sento distante da tanti processi. Il liberalismo ha le sue ragioni, così come l’idea del “fare presto” – la mia prima mostra in Svizzera l’ho realizzata in una settimana – però è necessario che questi aspetti restino relativi, valevoli a seconda del caso, e che non diventino un sistema assoluto.
A proposito di velocità e intuizione artistica…
La nascita dell’immagine è come una folgorazione. Sono rare le occasioni in cui afferri qualcosa, e l’evento non accade per caso, devi essere preparato.
Un riferimento finale alla sua origine greca…
Dalla mia finestra si vedeva in lontananza il Partenone, è questo mi basta… comunque la cultura classica greca è ormai un dominio comune dell’occidente, si potrebbe persino dire che i tedeschi la conoscano meglio dei greci stessi.
La mia è una terra piccola, con delle rivelazioni culturali sorprendenti.
Matteo Innocenti