In Art After Philosophy del 1969 il giovane Joseph Kosuth dichiarava che l’arte non era se non interrogazione sulla propria natura e quindi sull’insieme dei suoi significati – una novità, fondativa del conceptualism, per l’intenzione manifestata senza remore e per l’esplicitazione finalmente diretta, più che per il contenuto: poiché a riguardo di quest’ultimo valeva già come ragionamento oppositivo che ogni variazione stilistica attuata nel corso della storia è stata ed è effetto anche di una domanda, tutte le volte di nuovo posta, sul fare arte – la rappresentazione, in quanto artificio e accettazione di una convenzionalità, per darsi deve necessariamente porsi in relazione a sé, cioè alle regole che la compongono (è poi specifico dell’autore la decisione di mantenere tali regole, cercare di modificarle, dare adito maggiore ad alcune piuttosto che ad altre, si tratta del suo stile).
Lo stesso Kosuth ha fissato nella pratica ready-made di Marcel Duchamp il momento storico artistico in cui l’interrogazione “why” diventa dominante rispetto a ogni altro elemento; poi nella conceptual art tale occasionalità si fa programmatica, e più esplicita con il ricorso al linguaggio scritto. Nel corso dei decenni la ricerca dell’artista statunitense si è direzionata secondo precisi riferimenti filosofici (Wittgenstein, Nietzsche, Freud tra gli altri) e decisioni originali: il discorso critico considerato come fattore interno all’opera di per sé – il cui sviluppo ulteriore sono le mostre in cui intervenire da autore e curatore – la predilezione per i neon (è stato tra i primi, se non il primo, a ricorrervi in arte, già dalle metà degli anni sessanta), la modalità appropriazionista che poco spesso gli viene riferita e che invece ne rappresenta un cardine, infatti la maggior parte delle sue scritte sono citazioni. Adesso che queste sono state integrate come modalità espressive comuni dell’arte, in tanti vi hanno ricorso e continuano a ricorrervi, è lecito domandarsi se l’arte di Kosuth – e varrebbe per ogni altro autore di simile importanza – sia da ritenersi storicizzata, dunque incisiva soprattutto come stimolo e ispirazione nel presente, o se invece sia tuttora componente in fieri, palpitante fattore del generale discorso artistico. La mostra personale a Vistamare (Pescara), la sua più recente, relazionandosi con coerenza e decisione ad altri episodi di questa fase matura ci dà un orientamento nella questione.
Maxima Proposito si riferisce al poeta latino Ovidio (43 a.c. – 17) sia nel titolo che nella scelta di ricorrere a frasi dal suo corpus letterario. Il nucleo dell’esposizione consiste di neon in lingua latina e inglese distribuiti in quattro sale dello spazio – ognuna illuminata dalla luce delle opere raggruppate per colore, rispettivamente rosso, blu, giallo, viola (nella definizione originale: red ruby, cobalt blue, yellow, violet).
Dulce/So sweet; Omni amans militat/Every lover makes war; Nihil est toto, quod perstet in orbe/ Nothing in all the world remains unchanged; Verba animo desunt/ But words fail his desire; sono alcuni esempi a palesare che il progetto ha come parte sostanziale la traduzione, libera più che letterale. Indice di un’interpretazione che attuata al primo livello dall’artista stesso, viene stimolata nello spettatore affinché si compia del tutto il processo creativo dell’opera – e si compia differentemente per ogni persona. La preferenza per Ovidio ha a che fare con la contestualità, essendo sulmonese l’origine dell’elegiaco. Così la costruzione del percorso espositivo, nettamente scansionato, sta in rapporto di diretta necessità con l’architettura di stampo classicista del palazzo settecentesco. La forte presenza cromatica interagisce con gli spazi e diviene essa stessa ambiente.
Attitudine analoga la si trova anche nell’installazione permanente[1] per il nuovo auditorium della clinica Villa Serena[2], citazione dallo scrittore e poeta pescarese Gabriele D’annunzio, il Vate, a cui Kosuth si riferisce in quanto “mi piace pensare che gli elementi del mio lavoro abbiano radici locali e fungano da ponte culturale/contestuale fra passato e presente.” Nello specifico questa opera di scrittura a lettere serigrafate e punteggiatura riportata a neon, in un’unica riga continua lungo il perimetro interno dell’edificio, rientra nella serie A Grammatical Remark iniziata nel 1988 e oggetto di mostre in varie nazioni.
Ebbene tutti questi, pur in un possibile differente grado di intensità basato sulle occasioni espositive, non sono elementi nuovi nella pratica dell’artista. Ma è proprio nella loro incisività, coerenza, precisione, in un procedere interiore di estremo rigore, che si afferma il carattere della presenza di Kosuth nel contesto contemporaneo: una dichiarazione di responsabilità verso il fare artistico, per cui ogni cosa fa differenza e una cosa non vale l’altra. Il che si contrappone al relativismo di pensiero e di stile che in modo massiccio informa molta arte attuale. La forza dell’interrogazione, a cui dall’inizio del proprio percorso Kosuth ha dato centralità (per lui è l’unico modo di essere dell’arte) si rinnova costantemente tramite l’apertura di significato: la scrittura come un campo di forze sempre attive, lontano dal rischio, o meglio dai seppellimenti, dell’affermazione conclusa.
Quale che sia il grado di apprezzamento rispetto al modo di pensare-fare arte che Kosuth ha sviluppato nel tempo un fatto è evidente: la ricorsività del legame tra il linguaggio e il reale – che è poi dire tra noi è il mondo – è insita, necessaria, inesauribile.
[1] L’installazione Un’osservazione grammaticale #10, che incorpora una parte del progetto temporaneo presentato alla galleria Vistamare nel 2005, estrae dal romanzo Fuoco di Gabriele D’annunzio un ampio passaggio.
[2] Di grande intensità la cappella e la sala del commiato rinnovate recentemente da Ettore Spalletti e dalla moglie Patrizia Leonelli nel complesso della medesima clinica.