Affermazione della dittatura, centri artistici, sindacati, premi, artisti allineati e opere “celebrali e disumane”. Nella congerie storica che porta l’Italia all’esito fascista, il sistema culturale e artistico insieme arretra e fa nuove scoperte. Una mostra tenta il racconto di questa vicenda complessa e determinante. Attraverso gli occhi di chi ne fu protagonista.
Un decennio che segna un’anomalia a livello storico e culturale. A guardarli oggi, gli Anni Trenta, terreno fertile per gli sviluppi della dittatura fascista, delineano uno scenario artistico, in un certo senso, paradossale: in esso convivono impulsi e raffrenamenti, l’intuizione delle possibilità espressive a venire e l’arroganza della censura. Sono ancora numerosi gli interrogativi sui motivi e il valore di ciò che si verificò, per la coscienza ormai consolidata che nessun episodio, per quanto diverso dalla tendenza generale degli eventi, può venire giustificato come un’eccezione fatale.
In via ideale di collegamento con la grande mostra di Carlo Ludovico Ragghianti nel 1967Arte moderna in Italia 1915-1935, Palazzo Strozzi, con un approccio più misurato e insieme più specifico, torna ad analizzare il periodo. Ne abbiamo discusso con Antonello Negri, curatore con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri di Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo.
La mostra si sviluppa cercando di mantenere la prospettiva del periodo considerato, per ridare allo spettatore un’immagine non contaminata degli Anni Trenta. Perché questa decisione e che cosa vi ha concesso?
Di quel periodo sono state date diverse riletture storiche, talvolta schematiche e ripetitive. Seguendo il principio delle fonti primarie come essenziale strumento a disposizione dello storico per gettare qualche luce sul passato, anche relativamente recente come nel nostro caso, si sono privilegiate – con pochissime eccezioni – opere d’arte che, oltre a essere di alta qualità e a rappresentare i principali attori della scena artistica del tempo, negli Anni Trenta fossero state effettivamente viste, riprodotte e discusse, passando alle principali mostre, a cominciare dalla Biennale, e dunque rappresentando direttamente le diverse tendenze che contemporaneamente si sviluppavano e caratterizzavano l’arte italiana. E per la loro lettura ci si è avvalsi, nella costruzione del percorso della mostra come del suo catalogo, di testi critici del tempo che, anche in contrasto tra loro, indicavano percorsi, raggruppamenti, programmi estetici.
L’idea alla base di tale scelta, condivisa dal gruppo che ha progettato la mostra, è che soltanto sforzandosi di assumere l’ottica di un periodo si possa meglio avvicinarsi alla sua reale dimensione, sempre molto più complicata di quanto ci si aspetti. Un’impostazione del genere ha permesso – ci si augura – di andare al di là di alcuni luoghi comuni.
Qual è il significato dell’oltre il fascismo del titolo?
Premesso che il sottotitolo è stato oggetto di una quantità di discussioni, il senso di quell’oltre, alla fine, è di suggerire una situazione ‘governata’ dal fascismo – con speciale durezza nella seconda metà del decennio e soprattutto dopo le leggi razziali del 1938 – ma altresì carica di aperture (non di rado pagate a caro prezzo) all’Europa e al ‘dopo’.
Distanza e vergogna sono i sentimenti della coscienza civile italiana, dal secondo dopoguerra, in risposta alla dittatura fascista. Un progetto di questo tipo dimostra che la storiografia e la critica d’arte sono “mature” per affrontare in modo oggettivo il periodo, o al contrario si tratta di un impulso ad approfondire alcune questioni rimaste tuttora a un livello superficiale di analisi?
Il giudizio sul fascismo lo ha dato la storia e mi pare ci sia poco da aggiungere. Credo che la distanza storica e uno studio scientifico della documentazione a disposizione – le opere stesse, la letteratura artistica e la pubblicistica del tempo in tutte le sue articolazioni, le fonti d’archivio – possa permettere di descrivere con una buona approssimazione al vero i fatti che ci interessano, al di là di qualunque intenzione ‘revisionista’ che ci è del tutto estranea.
Comunque, al di là delle posizioni personali, sembra innegabile che quegli anni abbiano lasciato dei segni. Gli aiuti ai giovani artisti, il dialogo tra le arti, l’immagine come strumento potente di convincimento, la comunicazione di massa. Anche se in un modo distorto, sono state anticipazioni di dinamiche future…
Anni certamente cruciali, esattamente per quelle ragioni. Si può solo aggiungere che la forza dell’arte nel quadro di una prima pratica della comunicazione di massa – peraltro già allora molto più efficacemente applicata attraverso la radio, il cinema e le riviste e i giornali fotograficamente illustrati, ai quali non a caso abbiamo dedicato una parte del catalogo – è ben poca cosa rispetto a quanto negli ultimi decenni hanno fatto la televisione e tutte le attuali ‘virtualità’. Ma è nella prospettiva della comunicazione di massa e del convincimento di massa che vanno senz’altro inquadrate le diverse forme di ‘arte pubblica’ tipiche di quel decennio; peraltro, bisogna aggiungere, non solo nell’Italia fascista ma un po’ in tutto il mondo d’allora, dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti di Roosevelt.
Il 1938 segna un anno di svolta nella politica italiana, soprattutto in termini di intolleranza e razzismo. In arte che cosa cambia?
L’Italia si adegua con le leggi razziali del 1938, anche se già nel 1933 c’era chi come Ojetti, sul Corriere della Sera, usava una terminologia inquietante per descrivere l’arte dei giovani in occasione della Prima mostra interregionale dei sindacati tenutasi a Firenze: “Raramente si sono veduti tanti quadri e sculture lontane dalla bellezza, dal vigore e dalla salute; e, ahimè, le più erano opere di giovani, cerebrali e disumane, raccolte in un padiglione separato, come in tempo d’epidemia”. Tra quegli artisti ‘malati’ e devianti c’erano, per esempio, Lucio Fontana e Renato Guttuso. Esplicitamente di degenerati, ebrei e bolscevichi si comincia a parlare, appunto, nel 1938, e con sorpresa troviamo nel mucchio anche de Chirico e Carrà, oltre ai soliti Birolli e Fontana e agli astrattisti, nel quadro di uno scontro piuttosto violento tra due anime del fascismo che, in campo artistico, si concretizzano nel Premio Cremona di Farinacci, gerarca cremonese, e nelPremio Bergamo di Bottai, ministro dell’educazione nazionale.
Quanto collaborano gli artisti, coscientemente e no, al consolidamento del potere attraverso la preminenza concessa all’immagine del duce e all’estetica del fascio?
Molti collaborarono, ma credo con modesti risultati, anche se una quantità di artisti realizzarono opere, di pittura o scultura, dichiaratamente apologetiche: il caso più significativo, oltre agli artisti impegnati in opere di ‘arte pubblica’, potrebbe essere quello degli aeropittori futuristi. Ma il consolidamento del potere aveva a disposizione, come già accennato, mezzi ben più efficaci come – rimanendo nel campo dell’immagine – il cinema, le riviste illustrate graficamente e fotograficamente, i manifesti…
Tra le opere in mostra quali sono le determinanti?
Non sono così tante le opere esposte, e sono state tutte scelte a ragion veduta… A posteriori – ma è un ragionamento possibile solo a mostra allestita, dunque ormai inutile – potrei dire quali mi sembrano non determinanti; pochissime a dire il vero. Ma non dico quali.
Proviamo a dare una definizione dell’importanza reale del decennio, in relazione a ciò che lo ha preceduto e seguito…
Decennio decisivo, ma non solo in Italia. È il momento della chiusura di un’epoca cominciata con la Rivoluzione francese, che per convenzione si chiama ‘arte contemporanea’ (la qual cosa fa pensare alla necessità di una nuova ‘periodizzazione’ dell’arte). In quel decennio si assiste all’ultima manifestazione di un’arte che – a mio parere – dopo la guerra cambia radicalmente e non è più confrontabile con il prima, anche se ancora oggi ci sono tantissimi artisti che lavorano così… Ma, al di là di inerzie che dureranno a lungo, quella specie di arte non c’è più. D’altra parte, che non ci sarebbe più dovuta essere era ben chiaro, per esempio, ai dadaisti berlinesi già nel 1920; o al maestro del Bauhaus Moholy-Nagy, che lo scrive pochi anni dopo in Pittura fotografia film, prima di Walter Benjamin. Insomma, l’importanza del decennio mi pare stia nel suo essere uno splendido tramonto.
In molti affermano che il fascismo abbia emarginato l’Italia rispetto alla scena contemporanea internazionale. Un isolamento da cui il Paese non si sarebbe mai davvero ripreso…
Difficile dirlo, anche se quella dell’isolamento artistico mi pare piuttosto una leggenda che maschera una situazione più ‘strutturale’ per così dire, e di lontane origini. Mi pare che l’ultima volta che l’Italia ha giocato un ruolo da protagonista sulla scena artistica internazionale sia stato con il gruppo futurista ‘storico’, cioè prima della Grande guerra. Ma è stato un episodio piuttosto isolato. Nel XIX secolo, dopo Canova, la produzione artistica italiana di grande successo internazionale era la scultura, oggi quasi del tutto dimenticata al di fuori della cerchia degli specialisti…
Matteo Innocenti
Firenze //
Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo
a cura di Antonello Negri, curatore con Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Giorgio Zanchetti e Susanna Ragionieri
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