I laboratori dove le idee degli artisti si trasformano in opere di marmo. Cattelan, Fabre, Buren, Nagasawa, tra gli altri: la storia degli Studi d’Arte Cave Michelangelo conta un numero impressionante di collaborazioni con i protagonisti dell’arte contemporanea. Ma qual è il vero meccanismo che trasforma un progetto in una scultura? Ne parliamo con un esperto, Luciano Massari: artista, direttore artistico degli Studi d’Arte e direttore – nomina recente – dell’Accademia Albertina di Torino.
Una storia ambientata nelle cave carraresi, il cui protagonista non è un personaggio ma una roccia: il marmo. Da millenni questa pietra “splendente” rappresenta una risorsa ideale per l’architettura e la scultura. Qual è la ragione del suo fascino?
La pietra, per la sua stessa natura, è stata usata sin dall’antichità come elemento, difficilmente deteriorabile, per trasmettere cultura: vi si trovano incise leggi, alfabeti, cronache e narrazioni. Tutti segni che hanno attraversato il tempo in modo indelebile; molte nostre conoscenze provengono dalla lettura della pietra. Il primo motivo di fascino del marmo è la sua “presenza” nei secoli. Ma il suo utilizzo nella scultura apporta un altro valore aggiunto: lo sguardo al passato che si riflette nel futuro arricchendolo anche delle nostre attuali creazioni artistiche.
La maggior parte delle opere contemporanee in marmo viene realizzata in quest’area. Chi osserva, raramente è a conoscenza dei processi di lavorazione: si inizia dall’idea dell’artista, e dopo che cosa succede?
Ogni artista ha il proprio metodo di lavoro: alcuni seguono da vicino ogni fase di realizzazione dell’opera, altri inviano un file bidimensionale o tridimensionale del progetto da cui noi elaboriamo l’opera. Ci giungono progetti da tutto il mondo: ad esempio dall’artista minimal Robert Morris ci è stato inviato un disegno via mail e da quello abbiamo sviluppato il modellato sino ad arrivare ai dettagli, comunicando per posta elettronica da una parte all’altra dell’oceano. La sua presenza in studio è stata utile e necessaria solo in un secondo tempo, per definire gli ultimi ritocchi.
Gli artisti intervengono dunque all’inizio e alla fine del processo?
Molti artisti hanno un’idea precisa del risultato che vogliono raggiungere, ma riconoscono la fondamentale importanza di una competenza tecnica (e, in alcuni casi, anche interpretativa) che solo poche maestranze sono in grado di offrire loro: noi lavoriamo nel rispetto della grande storia della scultura, con metodi tradizionali, ma avvalendoci anche di strumenti sofisticati come può essere l’elaborazione in 3D, da destinare alla robotica. Il nostro è un ruolo di grande responsabilità, perché le sculture uscite dal laboratorio sono opere spesso esposte permanentemente in collezioni e musei e contribuiscono alla crescita dell’arte contemporanea.
Il rapporto fra l’arte e la tecnica è un punto controverso, tipico della modernità e ancora irrisolto. Credi ci sia una diversità estetica tra gli artisti che lavorano in prima persona le materie e quelli che demandano ogni fase pratica?
No, del resto in ogni tempo ci sono state mani sconosciute dietro i capolavori: basti pensare alle grandi botteghe di famosi artisti del passato, dove la realizzazione era affidata ai collaboratori. Il nostro lavoro, in realtà, è paragonabile al lavoro di editing che si svolge nelle case editrici. L’editor suggerisce soluzioni, segue l’autore passo passo; è quello che si fa da noi con la scultura.
La mostra newyorchese di Cattelan ha preso forma tra polemiche, fughe di notizie e trovate pubblicitarie. Come si lavora con un artista paradossale e sfuggente?
Maurizio Cattelan è un artista estremamente rigoroso, che segue ogni fase delle sue opere con grande attenzione: sa molto chiaramente quello che vuole. I progetti sono precisi sin dalla fase ideativa e non ci sono pentimenti in corso d’opera.
Più cerebrale ma ugualmente provocatorio, Jan Fabre. La sua interpretazione dellaPietà vaticana di Michelangelo, divenuta Pietà V, ha suscitato prevedibili polemiche. Dopo le avanguardie storiche, e il caso eccezionale di Marcel Duchamp, non è semplice comprendere se in queste libere interpretazioni prevalga ancora l’intelligenza o la strumentalizzazione…
Fabre ha un linguaggio ben codificato, non credo che giochi sul sensazionalismo. Interpreta gli stati d’animo del momento, includendo nella scultura tutto il suo bagaglio culturale, dal teatro alla performance. L’opera presentata a Venezia va letta tenendo conto della visione di tutta l’installazione in cui l’artista ha portato al limite le potenzialità espressive del materiale. Nel dialogo con questi artisti (Fabre e Cattelan) ho sempre trovato l’espressione coerente della loro poetica, non è mai trapelata la ricerca di un clamore fine a se stesso: sono entrambi molto concentrati sull’approfondimento del messaggio che vogliono trasmettere con i loro progetti. Le loro sono opere che pongono domande che un pubblico attento riesce a decodificare. A volte mi stupisco nel leggere interpretazioni scandalistiche e superficiali.
La nuova fontana di Daniel Buren, nonostante l’opinione di Sgarbi, si colloca con grande equilibrio nel contesto di Villa La Màgia; in generale la Toscana offre uno spettacolo ampio di arte ambientale. Esaurito il compito monumentale, quindi di esplicita rappresentazione del potere, la scultura ha ormai una funzione soprattutto spaziale?
La scultura, quella vera, che la si intenda come opera statuaria, gruppo scultoreo, installazione site specific, a una scala più vasta arte ambientale, ha sempre avuto un dialogo con lo spazio circostante, fatto di proporzioni, di richiami tra pieni e vuoti, ricerca dei segni sul suolo e dello spirito del luogo. Questo è quello che ha fatto Buren a Quarrata, con un’opera di grande sensibilità.
In quanto al concetto di “monumentalità”, farei piuttosto una distinzione tra ciò che è celebrativo o retorico e ciò che non lo è: insomma, è una questione di lessico e sintassi. Come esempio ricordo il lavoro del giovane Giorgio Andreotta Calò presentato all’ultima Biennale di Carrara, curata da Fabio Cavallucci: la sua opera era dedicata ai morti sul lavoro. Un progetto intelligente per un monumento contemporaneo senza retorica.
A livello generale, però, resiste l’idea che questa forma espressiva, assorbita dalla categoria più vasta dell’installazione, sia da considerarsi esaurita. In quanto artista e uomo di cultura, cosa puoi dire al riguardo?
Credo che stiamo invece assistendo alla rinascita della tecnica applicata alla scultura; basti pensare al suo utilizzo da parte di grandi artisti come Tony Cragg, Jake e Dinos Chapman, Murakami, Anish Kapoor, Antony Gormley, Damien Hirst, Maurizio Cattelan, Roberto Cuoghi, Abdel Abdessemed o anche da parte di artisti emergenti. Tutti adoperano materiali diversi, ma proprio di recente si assiste a un recupero del marmo e dei metalli, in ogni declinazione possibile.
L’estrazione e la lavorazione del marmo sono un forte indotto per Carrara, e per tutta la zona circostante. Questa situazione dimostra che l’arte e quindi la cultura, contrariamente al parere di molti, può divenire un fattore economico attivo…
Sì, certamente: l’atelier è nato una quindicina di anni fa, quando i laboratori stavano scomparendo insieme a tutta una generazione di persone che avevano un sapere preziosissimo, radicato nel nostro territorio, che sarebbe andato perduto per sempre. Dunque la formazione dei giovani scultori è stata una sfida di grande rilevanza per dar vita all’attività degli studi.
Del resto, Carrara ha sempre avuto una centralità nella storia della scultura italiana, è sempre stata un punto di riferimento: basti pensare a Henry Moore, o a Mario Merz e a tanti altri prima di loro. La presenza in città dei grandi protagonisti dell’arte contemporanea può, inoltre, diventare un’opportunità di rilancio del territorio. L’attività di lavorazione del marmo, con l’indotto culturale che ne può derivare ( e penso ad attività espositive di livello internazionale, workshop, manifestazioni ecc.) è senz’altro un punto da cui ripartire.
Matteo Innocenti