Co-ordinate è la nuova mostra personale di Antony Gormley presso Galleria Continua. Il titolo si riferisce a una riflessione sulla scultura intesa come luogo più che come oggetto – in relazione dialettica alla recente esposizione dell’artista inglese al Forte Belvedere di Firenze, dove l’insieme di sculture si concentrava sulla presenza corporea e sulla sua misura concreta.
Oltre un vasto corpus di opere nei vari ambienti, al centro della galleria, nella platea dell’ex cinema, Gormley presenta un’inedita installazione, Lost Horizon II: migliaia di funi elastiche rivestite in seta che dal suolo arrivano al soffitto, sorta di immaginifica foresta che il pubblico è invitato ad attraversare. L’esperienza permane come una vibrazione per alcuni minuti dopo il suo termine. Abbiamo parlato del progetto nel suo complesso con l’artista.
Matteo Innocenti: Ho appena fatto l’esperienza della tua installazione, Lost Horizon II. È insieme coinvolgente e disorientante, il confronto con lo spazio complesso…
Antony Gormley: Nel teatro la passività del pubblico e la componente narrativa della rappresentazione sono poste in rapporto di opposizione dialettica, in questo modo l’intero spazio collassa in una dimensione in cui l’osservatore diventa l’osservato: lo spettatore non è più soltanto tale ma è anche un partecipante attivo. Lo stesso vale per l’architettura. Infatti questo tipo di integrazione ha reso evidente che non avremmo dovuto usare l’illuminazione artificiale nel teatro; la mescolanza della luce dalla balconata e di quella naturale dall’esterno restituisce con chiarezza fisica l’interferenza in atto e la realtà “nuda” del luogo. Sia di giorno che quando diventa più scuro, e il teatro appare più vuoto e inoccupato, l’effetto è un coinvolgimento non comune. L’illuminazione normalmente richiesta dalla rappresentazione – per guardare un oggetto isolato nella luce – viene sostituita dall’attenzione: qui devi essere presente alla tua stessa esperienza.
MI: Quindi è un’osservazione di natura psicologica?
AG: Sì ma è anche osservazione dell’esterno. Perché se non guardi il contesto potresti cadere.
MI: Sto pensando anche ad altre tue installazioni – a Blind Light[1] per esempio; questo tipo di opere richiede una partecipazione più “radicale” da parte del pubblico…
AG: È vero per alcune persone, altre invece continuano a rapportarsi ad esse riferendole al contesto degli oggetti, della contemplazione, e così scelgono di non partecipare. Per esempio ciò accade a chi ha problemi di claustrofobia o similari. Lo stesso vale qui, ci saranno persone felici di osservare gli altri muoversi nel campo dell’installazione ed altre che vorranno entrare per percorrerne il suolo. A questo proposito Lost Horizon è un dialogo estremo con la promessa[2] della pittura monocroma. Se Barnett Newman desiderava che le sue pitture, le sue zip, stessero il più vicine possibile al suolo per creare uno spazio potenziale in cui misurare e sentire il nostro stesso esserci, qui le zip sono state sostituite dalle funi elastiche di seta con l’intenzione di invitare lo spettatore ad entrare in modo effettivo dentro l’opera. Non è molto differente dal dialogo attivato da James Turrel, nel suo caso però la soglia non viene superata, si resta in uno stato di sublime alterità; io insisto molto affinché la soglia venga attraversata, per interiorizzare l’esperienza dell’oggetto. Mi aspetto che le persone sentano la difficoltà di focalizzare. Quando sei nel campo dell’installazione e guardi a fondo cercando di percepire le distanze capisci che si tratta di un esercizio difficile ed è comune avvertire un senso di disequilibrio. Allo stesso tempo sei stimolato a proseguire il cammino, il che si traduce in una forma inusuale di movimento corporeo, come può avvenire spostandosi dentro una giovane foresta in crescita. Non è certo la stessa cosa che camminare in un campo aperto, per esempio in un deserto.
MI: Perché ti interessa questo tipo di movimento?
AG: Muoversi in modo inusuale implica la riconnessione con il proprio corpo. Qualcosa si risveglia nell’antichità del nostro sistema limbico. Se diamo credito alla psicologia evoluzionista c’è stato un momento in cui abbiamo lasciato le condizioni della foresta per la savana, con tutta una serie di conseguenze per il nostro sviluppo, è proprio questo il momento a cui cerco di collegarmi.
È importante che ci sia anche una zona vuota esterna all’installazione, una sorta di cornice da cui si possono osservare gli altri crearsi il proprio percorso; da lì sembra davvero di osservare dei proto-ominidi. L’installazione è uno strumento che permette di riabituarsi al corpo e allo spazio, non ha niente a che fare con la creazione di immagini nel senso che è diventato così comune e sofisticato nella nostra cultura.
MI: Consideri queste installazioni, queste esperienze, come un’evoluzione della tua scultura oppure rappresentano qualcosa di diverso?
AG: Sono del tutto parallele. Ho sempre portato avanti due attività: una è dare conto dello spazio e della vita umana usando il mio stesso corpo come test, l’altra è creare spazi che servano da strumenti di osservazione. Il rapporto tra di esse non è di evoluzione. Non sono sicuro di credere all’evoluzione, mi considero piuttosto scettico a riguardo di ogni mito di progresso e quindi anche del mito del progresso in arte. Se prendiamo i casi degli ominidi moderni del Sud Africa o dell’Indonesia, della loro registrazione della percezione interna come pittura o idoli vediamo che non c’è stata evoluzione – infatti l’arte parietale paleolitica ha un grado di sofisticazione che oggi spesso non troviamo. A questo riguardo penso che l’ossessione dell’oggetto e del progresso, così presente nel corso del ventesimo secolo fino ad oggi, dovrebbe venire sostituita da qualcosa di più fondamentale, cioè dall’approfondimento di chi siamo, dalla ricerca di nuove forme di coscienza e di comportamenti collettivi. Viviamo in uno strano periodo in cui la modificazione degli oggetti è divenuta dominante rispetto alle possibilità che ha l’arte di aiutare l’umanità. 25 mila anni fa, nel paleolitico superiore, l’arte era davvero centrale: essa coincise all’emergere dei comportamenti riflessivi, del sentimento religioso. Adesso invece la crescente considerazione dell’arte come merce, oscura la considerazione dell’arte come zona di confronto reale tra il pensiero e l’immaginazione.
MI: Ho l’impressione che nelle tue sculture recenti ci siano molti riferimenti: alla genetica, alla fisica quantistica, al digitale…che cosa pensi della tecnologia? Noi sappiamo che c’è un modo positivo e creativo di indirizzare la tecnologia ma allo stesso tempo conosciamo il suo potenziale distruttivo: quest’ultimo è un aspetto che consideri?
AG: L’estensione della mente e del corpo umani attraverso altri strumenti è un fatto del presente. Mi piace l’idea perché contiene sia la promessa che il rischio della tecnologia. Con questi strumenti noi possiamo apprendere soltanto ciò che la capacità degli strumenti stessi può insegnare: in altre parole l’area di riferimento del mezzo è predeterminata da quella conoscenza che ne ha stabilito la costruzione e la struttura; questo è il limite reale della tecnologia. D’altra parte non intendo negare niente di ciò che esiste. Programmi come Rhino, che noi usiamo continuamente, sono uno strumento straordinario per comprendere le cose prima che vengano fisicamente realizzate, per comprendere i comportamenti potenziali. Tutto ciò che vedi qui, nel teatro, è stato progettato con un software tridimensionale; poi abbiamo realizzato anche vari modelli fisici poiché volevo che l’intera relazione con il corpo venisse davvero testata. In sintesi penso che gli strumenti tecnologici accrescano la nostra capacità di creare un meta-mondo e che esso acquisisca importanza soltanto quanto viene immesso nel mondo reale. Allo stesso modo di quanto avviene in ambito morale, dove i valori diventano tali solo se vissuti.
Certo può accadere che in un periodo narcisistico come l’attuale le “estensioni” cerebrali diventino così dominanti da far scordare alle persone di guardare fuori dalla finestra o di guardarsi l’un l’altra negli occhi. La nostra società è come un bambino che cerca di giocare con un nuovo giocattolo, la cosiddetta comunicazione. Io però non la considero tale, credo sia una traduzione della comunicazione in informazione, e spesso ciò che ne consegue è la mancanza di qualsiasi profondità critica. Viviamo la strana situazione per cui tutti sono in contatto con tutti eppure le informazioni ci alienano. Anche per tali motivi la scultura per me è importante: essa riafferma le cose del mondo, e noi stessi in quanto esseri viventi sensibili e pensanti.
MI: Lost Horizon è un’installazione che ha durata temporanea. Quali sono le tue considerazioni sul tempo, sul suo passaggio e sulle sue trasformazioni, specialmente in arte?
AG: Ciò che mi affascina di questa opera è il fatto che, seppur temporanea, il suo effetto elastico continua come una vibrazione per alcuni minuti dopo che si è passati attraverso di essa. Assomiglia a una nave che attraversando l’oceano lascia dietro di sé delle scie. È una sorta di iscrizione. Ho l’impressione che la tua domanda porti ad altre domande il cui punto finale coincide con il chiedersi dove l’arte resti. Io credo che essa resti proprio nella memoria. Il valore di Lost Horizon si realizza se la sua esperienza diventa un punto di referenza all’interno della memoria. Con il fare arte ho sempre inteso fermare il tempo, in due modi distinti: uno appunto è creare una condizione in cui un evento si iscrive nel ricordo, l’altro è creare oggetti che vadano oltre la vita dell’individuo. Sono grato alla capacità della scultura di parlare silenziosamente delle speranze e delle parure di un preciso periodo, a un periodo che ancora non esiste.
MI: L’ultima domanda che forse è più una curiosità. Quanto è stata importante per il tuo percorso e per il tuo modo di pensare l’esperienza che hai avuto in India?
AG: Senza tale esperienza oggi non sarei qui. Per me è stata la conoscenza di un’altra cultura non segnata da un’ideologia religiosa monoteistica, dall’idea manipolatoria e crudele del paradiso e dell’inferno, della grazia e del peccato. Questo in un certo senso mi ha reso più realista. Ho compreso che possiamo assumerci una responsabilità “creativa”, poiché ognuno di noi in un certo senso è un artista che lavora su un particolare oggetto – sé stesso. Il sé dovrebbe essere il risultato dell’aver vissuto seriamente le esperienze, dell’aver guardato al fondo degli effetti scaturiti dalle proprie azioni. Per il Buddismo l’attitudine alla sofferenza è il risultato dell’ignoranza, del restare alla mercé dei propri desideri e delle proprie repulsioni in maniera egotica. Diversamente puoi osservare il dolore come tale, senza pensarlo come tuo dolore esclusivo, e volere superarlo, allora è come una liberazione. Sì, l’India è stata molto importante.
I’ve just experienced your installation, Lost Horizon II. I found it to be both compelling and disorientating at the same time, the confrontation with complex space…
In the theatre, the passive role of the audience and the narrative component of the performance are dialectically opposed. Consequently, the whole space collapses in a dimension in which the observer becomes the subject of observation: the spectator is no longer merely a spectator, but becomes an active participant. The same goes for the architecture. This type of integration has made it obvious that we should have avoided using artificial lighting in the theatre; the combination of light from the balcony and natural light from the outside highlights the interference going on and the “naked” reality of the venue with physical clarity. Both by day and when darkness falls, and the theatre looks emptier and bare, the effect is one of unusual involvement. The lighting usually required by the performance – to watch an object isolated in the light – is replaced by attention: here you really have to be a part of your own experience.
So, it’s an observation of psychological nature?
Yes, but it’s also observation of the outside. Because if you don’t look at the context, you might fall.
I’m thinking about some of your other installations too – Blind Light[3] for example; this kind of work requires a more “radical” participation of the audience…
That’s true for some people, but others continue to relate to them through the context of the objects, of contemplation, and thus choose not to participate. This happens, for example, to people who suffer from claustrophobia or something similar. The same happens here; some people are happy just to watch others moving within the field of the installation, while others want to get inside to walk through it. In this regard, Lost Horizon is an extreme dialogue with the promise[4] of monochrome painting. While Barnett Newman wanted his paintings, his zips, to be as close as possible to the ground, to create a potential space in which to measure and feel the very fact of “being”, here the zips have been replaced by elastic silk ropes with the intention of inviting spectators to actually enter inside the work. It isn’t all that different from the dialogue generated by James Turrel. In his case, however, the threshold is never passed, and one remains in a state of sublime alterity. I really want people to go beyond the threshold, to interiorise the experience of the object. I expect them to find it hard to focus. When you’re within the field of the installation and look deeply, trying to perceive the distances, you realise that it’s not an easy exercise and people often feel as though they’re losing their balance. At the same time, you’re encouraged to keep on walking, and this translates into an unusual form of bodily movement, similar to what it might be like to move through a young, growing forest. Of course, it’s not the same thing as walking in an open field, in a desert for example.
What interests you about this type of movement?
Moving in an unusual way implicates a reconnection with your own body. Something reawakens in the antiquity of our limbic system. If we listen to evolutionary psychology, there was a moment in which we left the conditions of the forest for the savannah, with a whole series of consequences for our development, and it is this moment that I’m trying to reconnect with.
It’s also important for there to be an empty area outside the installation, a sort of frame from which to observe the others as they make their way through it; from there, it’s really like observing proto-hominids. The installation is a tool which allows you to get used to the body and space again, and has nothing to do with the creation of images in the sense that has become so common and sophisticated in our culture.
Do you see these installations, these experiences, as an evolution of your sculpture or do they represent something different?
They are completely parallel. I’ve always pursued two activities: one is to give an idea of space and human life, using my own body as a test; the other is to create spaces that can be used as tools for observation. The relationship between the two of them is not an evolutionary one. I’m not sure I believe in evolution, I think I’m rather sceptical with regard to every myth of progress, including that of progress in art. If we consider the case of modern hominids in South Africa or Indonesia, of their registration of inner perception as paintings or idols, we see that there has been no evolution. Indeed, palaeolithic parietal art has a degree of sophistication which we rarely find today. In this regard, I think that the obsession with objects and progress, so strongly present during the twentieth century and today, should be replaced by something more fundamental, by the analysis of who we are, by the search for new forms of conscience and collective behaviours. We are living in a strange time, in which the alteration of objects has become dominant over art’s possibility to help mankind. 25 thousand years ago, in the Upper Palaeolithic, art really had a central role: it coincided with the emergence of reflective behaviours and religious sentiment. Now, however, the growing consideration of art as a commodity wipes out its consideration as an area of real confrontation between thought and imagination.
I get the impression that there are numerous references in your recent sculptures: to genetics, quantum physics, digital technology…what do you think about technology? We know that there is a positive and creative way to direct technology but, at the same time, we know its destructive potential: is the latter an aspect that you consider?
The extension of the human mind and body through other tools is a fact of the present. I like the idea because it contains both the promise and the risk of technology. With these tools, we can only learn that which the capacity of the tools themselves is able to teach us: in other words, the area of reference of the medium is predetermined by that knowledge that has established its construction and structure; this is the real limit of technology. This said, I don’t want to deny anything that exists. Programs like Rhino, which we use all the time, are a remarkable tool for understanding things before they become physically real, to understand potential behaviours. Everything you see here, in the theatre, was designed using 3D software; then we also made various physical models because I wanted the entire relationship with the body to be actually tested. In short, I think that technological tools enhance our capacity to create a meta-world, which gains importance only when it is introduced into the real world. Just like in the moral sphere, where values become real only when they are experienced.
Of course, at a narcissistic time like today, cerebral “extensions” can become so dominant as to make people forget to look outside the window or to look each other in the eye. Our society is like a child trying to play with a new toy, the so-called “communication”. That’s not the way I see it though. I see it as a translation of communication into information and what often results is a lack of any critical depth. We live in a strange situation where everyone is in touch with everyone else, yet information alienates us from one another. This is one of the reasons why sculpture is so important to me: it reaffirms the things of the world and it confirms us as sensitive and thinking, living beings.
Lost Horizon is a temporary installation. What do you think about time, its passing and its transformations, especially in art?
What fascinates me about this work is the fact that, albeit temporary, its elastic effect continues like a vibration for a few minutes after you’ve walked through it. It’s like a ship which leaves a wake behind it as it crosses the ocean. It’s a sort of inscription. I get the feeling that your question is going to lead to other questions, the final point of which coincides with asking where art remains. I think it remains in the memory. The value of Lost Horizon is appreciated if its experience becomes a point of reference within the memory. By creating art, I’ve always wanted to make time stand still, in two different ways: one is by creating a condition in which an event is recorded in people’s memories, and the other one is by creating objects which go beyond the life of the individual. I am grateful for the capacity of sculpture to speak silently of the hopes and fears of a precise period in time, to a period which doesn’t even exist yet.
The last question is perhaps more of a curiosity. How important was your experience in India to your journey and to your way of thinking?
Without that experience, I wouldn’t be here today. For me it was the knowledge of another culture, not influenced by a monotheistic religious ideology, by the manipulative and cruel idea of heaven and hell, of grace and sin. In a certain sense, it has made me more of a realist. I realised that we can take “creative” responsibility, because each one of us is, in a manner of speaking, an artist working on a particular object: ourselves. The inner self should be the result of having really lived your experiences, of having closely looked at the effects caused by your actions. According to Buddhism, the aptitude for suffering is the result of ignorance, of being at the mercy of your desires and repulsions in an egotistical way. Otherwise, you can look at pain as such, without thinking about it as your own exclusive pain, and wanting to overcome it. Then it becomes like a liberation. Yes, India was very important.
Interview and translation by Matteo Innocenti
[1] Istallazione realizzata dall’artista nel 2007 alla Hayward Gallery di Londra.
[2] The Promise è anche il titolo di un noto quadro di Barnett Newman datato 1949, si tratta di uno dei primi esempi di “zip” paintings.
[3] Installation created by the artist in 2007 at the Hayward Gallery in London.
[4] The Promise is also the title of a well-known painting by Barnett Newman, dated 1949, one of his first “zip” paintings.