Con un gioco minimo di parole è possibile trasformare il titolo scelto dal direttore Daniel Birnbaum per la 53. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, cioè Making Worlds, in un più agile Making Words,passando così dal contesto della creazione a quello del linguaggio. Non sarebbe certo un’operazione illecita perché se per fare il mondo occorre un atto, per descriverne gli scenari conseguenti serve una designazione, quindi una lingua: appunto parole. Né si avrebbero contrasti di tipo fenomenologico dato che realtà e rappresentazione, essendo tra loro unite da un carattere di necessità, sempre s’imprimono nella coscienza con identico vigore. Addizionale riprova della correttezza di tale analogia è il nostro stesso sistema culturale, scandito dalla storia almeno quanto dall’arte, segnato da una genesi che – probabilmente non a caso – potrebbe condensarsi nell’esordio evangelico di Giovanni «in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Se poi, tornando all’intenzione d’inizio, consideriamo la casualità biografica per cui Birnbaum e Lukas Moodysson hanno condiviso la medesima lingua di terra, in quanto entrambi svedesi e, aggiungiamo, quasi coetanei, allora davvero molto concorre all’intuizione che in questo contesto si debba parlare, o meglio scrivere, di parole.
E’ evidente che lo strumento verbale costituisca per il regista della retrospettiva un fattore scatenante e indispensabile ai fini della vicenda filmica, altrettanto significativo risulta il modus di tale effettuazione: la facoltà d’impiegare varie declinazioni di linguaggio, tra loro confinanti ma diverse, per costruirvi un senso e uno stile molto personali. Tuttavia a configurare un’incisiva differenza non è la dinamica in sé, che infatti sarebbe riferibile ad altri autori, ma il grado estremo d’intensità della stessa. Difficilmente cineasti di discreto successo, quindi non di matrice underground, si sono inoltrati nella zona linguistica sperimentata in più occasioni da Moodysson: mostrare nonostante la storia.
S’inizi, volendo procedere per livelli, dalla limpidezza narrativa diTilsammans (Together, 2000), probabilmente l’opera più vivace del ciclo. All’interno vi si sviluppa con rigore dimostrativo, seppur tra contingenze e comportamenti sintomatici di una crisi esistenziale, il processo attraverso cui un nucleo autoreferenziale – segnato da un’ideologia comunista fuori contesto e fuori credibilità – matura fino ad assestarsi in discorso d’equilibrio. Cioè con il procedere della storia tanti protagonisti-sostantivi – lungo un turnover di incomprensioni, cambiamenti e liti – riescono a raggiungere la composizione giusta: e tale giustezza è nella sostanza, come in dialettica, sintesi tra termini opposti. Appunto il rimando alla sintassi riscatta un finale che altrimenti avrebbe peccato di faciloneria; la partita aggregativa della conclusione più che un classico “tutto bene ciò che finisce bene” corrisponde a un ritratto rappresentativo, a una sineddoche dell’assetto sociale. Se ne deduce quindi che nell’ultimo anno del vecchio millennio il regista auspicava, per la propria nazione, un linguaggio capace di fluidificarsi tra posizioni diverse e distanti, in grado soprattutto d’affrancarsi dagli errori dell’ottusità. Proposta che era anche una dichiarazione d’intenti, secondo la precisa volontà di modificare i rapporti con il passato. Ovvero il giovane Moodysson ben conscio dei pericoli sorti lungo le vie maestre, la prosa teatralizzante di Ingmar Bergman e le forzature recenti ma atipiche di Dogma 95, a scanso di ogni intransigenza non optava per la semplicità – realizzando che anch’essa, in quanto risposta condizionata, si sarebbe rivelata faziosa. Per risultare davvero innovativo e autonomo egli si dotava di un sistema elastico, costruito in alternanze di sintassi ordinate e disordinate, tentativi proposizionali e, perché no?, sgrammaticature eventuali.
Però che oltre all’originalità ci fosse coerenza, in quella scelta, lo dimostra un ulteriore livello discorsivo caratterizzante la serie: quello delle ricorrenze semantiche. Nelle diversità da film a film alcuni elementi narrativi si ripetono con costanza e identico senso, come fossero parole speciali tra le altre, quasi dei simboli. Si pensi al ponte presente in Fucking Åmål (1998) e Lilja 4-ever (2002), segno associabile a una condizione riflessiva critica, a un’indecisione sospesa tra la vita e la morte: se il suolo è la quotidianità sofferta, il salto in basso rappresenta una soluzione variamente definibile come fuga, speranza, suicidio. Nella perentorietà della scelta, aut aut, facile scorgervi diretti ed evidenti richiami all’esistenzialismo nordico. Simile per impostazione la figura del divano rovesciato, nicchia del sonno illusorio, rifugio estremo in cui proteggersi, benché solo per attimi brevi, dal freddo orrore della realtà. Nondimeno il procedimento ricorsivo si estende anche ai sentimenti. Ad esempio ritornano con insistenza l’angoscia della solitudine e lo sgomento per gli ambigui meccanismi che ne sono alla base; ripetendoci in più occasioni che un unico passo falso, dentro l’intricato cammino degli affetti, potrebbe condannarci a un futuro d’isolata malinconia, il regista palesa di temere massimamente o comunque di sentire per sé possibile tale sorte. Non è affatto bizzarro: l’anziano che nel corto Bara prata lite (Talk, 1997) discorre con un cadavere – la stessa figura e lo stesso personaggio si ripetono con gradazione sfumata in altre storie – manifesta in primis che il restare soli comporta un’impossibilità nella comunicazione, ovvero un grado zero della verbalità. Fondamentale risulta infine, poiché fecondo di conseguenze, il tema della crescita. Nella versione più semplice sono le sofferenze simili di Elin, Agnes, Erik e di tanti altri ragazzi uniti dalla ricerca di un equilibrio stabile, accomunati dal sogno di una felicità adulta. Ma proprio nella velleità delle loro aspirazioni, poiché i genitori soffrono e piangono almeno quanto i figli, viene delineandosi una connotazione più vasta del concetto: l’adolescenza continua dell’essere umano, intesa quale stato esistenziale di un’identità mai raggiunta.
Quasi ogni personaggio della filmografia in questione attende un’alterità, una mutazione dei fattori esterni che s’imponga come causa necessaria ed effettiva del benessere interiore. Le varianti formali del supposto cambiamento sono infinite – migliorare l’aspetto, andarsene lontano, il termine dell’indigenza, un incontro importante, l’amore…nella fantasticheria autobiografica tutto è possibile, tuttavia nella realtà esterna vige un netto distinguo di tipo cronologico. Ovvero se la crisi dei giovani può risolversi in un modo o nell’altro, positivo e negativo che sia – si pensi agli estremi di un amore lesbico appena iniziato e di un suicidio indotto da un precoce male di vivere – nel trauma degli uomini e delle donne maturi non esistono più sensi possibili. Tali seconde esistenze, già sviluppate, si rivelano pervase da un’acquiescenza asettica, scandite da un’incertezza definibile in nessuna maniera. Quindi, per meglio intendersi, il corpo adulto privato dell’identità coincide con il punto di rottura del cinema di Lukas Moodysson, quanto c’introduce alla sua più estrema discorsività.
Allora torniamo al legame che avevamo supposto all’inizio, per definirlo con maggiore precisione: il segno di coincidenza tra worlde word è esattamente l’io. Siamo noi, quale soggetto perenne e necessario, condizione primaria dell’esistenza del mondo come oggetto di conoscenza e del linguaggio come strumento di comunicazione. Ri-scritto specularmente: se l’uomo si spingesse nel progresso o nel regresso fino al punto critico di annientarsi, si avrebbe un decadimento di tutto quel sistema ontologico costituito dai rapporti tra soggetto e oggetto. Sappiamo che un processo del genere può attuarsi – in concreto – soltanto nell’evento limite della morte; ciò comporta che se un’opera artistica intendesse arrivare a un tal grado d’annullamento, verso quanto ha d’esterno, finirebbe inevitabilmente per annullare anche sé stessa. Parrebbe allora generarsi una contraddizione nello specifico dell’autore svedese: come saprebbe egli porre in discussione la parola identità senza attentare contemporaneamente alla parola creazione? Come rappresentare la scena della propria inesistenza? Ebbene il regista ci riesce attraverso una simulazione, cioè proponendo lo stesso conflitto su scala minore: invece di riversare le conseguenze della contesa sul mondo, la nostra più estesa dimensione, Moodysson le devia sul genere, che è la dimensione più estesa del film. Ne consegue che i due lungometraggi interamente incentrati sull’io Ett hål i mitt hjärta (A hole in my heart, 2004) e Container (2006), attraverso coerenti dinamiche, giungono a una zona liminare tra generi/tipologie considerati diversi: cinematografo e videoarte. Appunto qui, l’estremo del discorso autoriale.
A hole in my heart è una dissezione del linguaggio-corpo attraverso atti d’eccesso, per attestare il legame tra l’inalterabile univocità e l’irrimediabile sofferenza di ogni individuo. Essere particolari, come in effetti siamo, comporta una parziale incomunicabilità di sé, un mistero privato – non compreso del tutto neppure da noi stessi – che mai saprà rivelarsi agli altri. Appunto un piccolo foro nel cuore, il principio divino di singolarità che per errore degradiamo a radice di dolore: una mistificazione assoluta. A tale distorsione la contemporaneità iper-civilizzata si presta ottimamente, poiché in essa, ridottasi al minimo la separazione tra virtuosismo tecnico e maniera, tutto tramuta in parossismo e paradosso: ossia si scorre dal sesso alla pornografia, dal consumo al consumismo, dalla libertà al disordine, dall’umanità alla bestialità e così via secondo le evoluzioni dell’eccedenza. Sono atti che pur presupponendo un’alta coscienza restano comunque fini a sé stessi – poiché nessuna estremizzazione formale è in grado di mutare la sostanza dei fenomeni. In maniera inerente il film gira a vuoto dall’inizio alla fine, per abuso della struttura narrativa ma senza la volontà di risolversi in altro. Si potrebbe ricorrere alla fisica: se l’esistenza è un campo di forze dinamiche interagenti, nell’asfittico appartamento/set pornografico le stesse forze, portate al culmine, s’annullano l’un l’altra fino a ottenere l’inerzia. E l’estensione su cui si compie in modo più manifesto l’annichilamento è proprio il corpo. Chirurgia maxillofacciale, ingrandimento del seno, liposuzione, vaginoplastica, uso di Restylan e molto altri interventi d’assoluta standardizzazione imposti alla carne, vere forzature affinché essa risulti accettabile, piacevole, desiderabile – insomma, apparentemente compresa. Ad agire come potenza opposta è una piccola vasca di vermi, animali d’acchito identici e che invece rivelano, ad una più intensa osservazione, particolarità d’aspetto e di carattere. Tra i due estremi di forza, convergenza e divergenza illusorie, si compie la neutralizzazione: ogni organismo vivente, in quanto segnato dalla varietà onnipotente della natura, rappresenta un unicum. Dunque qualsiasi artificio risulterà inutile; Tess potrà approssimarsi alle uniformi e lucide fattezze di una barbie ma non diverrà mai una bambola, Richard e Geko nel possesso di una ragazza consenziente non risaneranno il conflitto della moglie e della madre, a niente varranno gli strani marchingegni di sveglie per ridare funzionalità alla mano deforme di Erik né un’imposta oscurità si rivelerà sufficiente a celarla. Eppure, scempio dell’umanità, nella cacofonia d’inazioni vengono inserendosi numerosi altri frammenti di disperazione onanistica: bocche riempite indifferentemente da cibo e detersivo, rapporti sessuali che generano noia più che trasgressione, padre e figlio ad alternarsi il ruolo, immaginazioni di violenza e di morte.
Non è strano che A hole in my heart abbia suscitato reazioni severe nel pubblico, soprattutto di sdegno; in fondo noi riusciamo ad accettare visioni di intimo dolore umano purché da qualche parte vi sia una speranza residuale, se una rivelazione invece riguarda, oltre alla sofferenza, l’assenza di cura, allora tutto ci risulterà insopportabile. Occorre però precisare che il film, più probabilmente, non si caratterizza per un compiaciuto distacco dal rimedio, semmai per l’onesta incapacità di trovarlo. E’ come se a quella data Moodysson, disorientato dall’essersi immerso nel nuovo genere non puramente cinematografico, avesse dovuto limitarsi a una esplicitazione scevra d’analisi. Schema di chi mostra senza dimostrare, ripetuto poi ad ogni livello: assenza di storia, decisioni mutate di continuo, attori innervositi e reclamanti un plot, videocamera in mano a un personaggio quasi a demandare la funzione di regista.
Da lì il passo conseguente e necessario è stato Container (2006), un approfondimento sul medesimo tema ma con l’aggiunta consapevolezza di dovere decidere: o il cinema oppure qualcos’altro. L’impianto strutturale che ne sta alla base lo si potrebbe definire una macchina magica delle parole; individui al colmo della disperazione, poiché assolutamente e inspiegabilmente vuoti, cercano di ripercorrere e comprendere la genesi della propria disfatta. In tale ricerca di termini, con l’agilità di un corpo che si cambi d’abito, vengono sperimentate significazioni infinite «a woman in a man’s body, a man in a woman’s body, Jesus in Mary’s stomach». Ciò che però si ottiene dal tentativo sono sempre immagini d’indeterminata appartenenza e proposizioni vaghe, la cui somma dà il sintomo di un subconscio irriducibile. E’ indicativo che nel breve documentario incluso nella versione dvd l’autore interroghi un sacerdote, una medium e uno psicologo sulla natura delle frasi e degli oggetti utilizzati nel film. La domanda reiterata, misto d’adulta inquietudine e d’ingenuità fanciullesca, ha la forma perenne e inalterata di un perché. Quindi c’è ancora uno stato di stupefatta incertezza, a cui tuttavia, stavolta, non consegue una stasi; anzi la questione interrogativa segna un vero cambiamento di direzione. Perché se nell’opera precedente la crisi identitaria corrispondeva a un’assenza di storia futura, qui invece viene a coincidere con un surplus di storia passata. Gli attori di A hole in my heart indicano le foto della propria infanzia come amara prova di una serenità che fu e che non potrà più essere, invece l’uomo nel corpo di donna e la donna nel corpo di uomo, entità scoria nel Container, sono manifestazioni di un passato che potrebbe contenere qualsiasi storia. Il caos o disordine – stato di cose prima della creazione – é il nuovo, grande giudice con cui confrontarsi: e il sotteso passaggio dall’io a un’essenza demiurgica svela il definitivo prevalere della smania narrativa sull’antica inquietudine. Infatti il prosieguo di carriera non lascia dubbi in proposito, il recente Mammoth (Mammut, 2009), prima occasione statunitense, ha segnato un ritorno effettivo alla cinematografia convenzionale (che non significa, per forza, banale). Eppure, proprio perché si è trattato di una deviazione temporanea, il caso di Lukas Moodysson risulta prezioso ai fini di un’eventuale generalizzazione. Dalla varietà complessiva della sua filmografia si risalirebbe a una speciale equazione, a un rapporto d’inversità proporzionale tra la percezione dell’autore e quella del racconto: ovvero quando si ricorre in grado minore all’impianto narrativo emerge al grado massimo la soggettività dell’artista, e insieme a essa l’interpretabilità del visto. Non potrebbe essere proprio questa una delle differenze essenziali tra cinema e videoarte? Un disvelarsi più o meno immediato, più o meno diretto di colui che opera. E ancora, considerando proprio A hole in my heart e Container – casi esemplari in cui la storia s’eclissa a favore della ricerca – c’è ancora ragione o opportunità di mantenere una distinzione tanto netta tra le due espressioni artistiche? Si dirà che la distanza permane nella misura in cui il cinema è, soprattutto, uno strumento popolare. Allora perché non pensare alla popolarità in nuovi termini? Invece che l’annosa contraddizione tra quantità di fruizione e qualità della stessa, una nuova sintesi. Poiché se il cinema attualmente non riesce, o riesce con troppa fatica, a costruire nuovi valori estetici, significa che ha bisogno di ri-qualificarsi come arte. Servirebbero dunque maggiore coraggio e più numerose sperimentazioni, così da sollecitare con regolarità il pubblico comune – e proprio con l’interessamento progressivo scongiurare la probabilità del flop economico. Senza tali progetti, le opportune verifiche e i relativi capitali d’investimento non sarà mai legittimo giudicare la maggioranza inidonea a nuove parole e a nuovi mondi – making wor(l)ds – a ciò che televisione e internet non sanno immaginare.
Intanto un sistema d’infiltrazioni tra spazi espositivi e sale cinematografiche potrebbe costituire un ottimo inizio. Chissà quali sarebbero le reazioni al video STILNESS di Tacita Dean, in cui un novantenne Merce Cunningham danza per l’ultima volta, completamente immobile, sui quattro minuti della composizione/silenzio di John Cage. Quali reazioni alle urla rallentate nelle opere di Bill Viola? Quali reazioni allo spettacolo high budget, cervellotico del ciclo cremasterico di Matthew Barney. E ancora e ancora molti altri esempi, lungo una serie pressoché infinita di discorsi sul mondo.
Matteo Innocenti