Con una certa dose di libertà si potrebbe considerare che la famiglia incarni nella propria singolarità le versioni utopica e distopica verso cui è attratta la società nel suo complesso; ovvero la convivenza umana nella sua modalità più ravvicinata per legami sanguigni e di condivisione, pone in concreta espressione tutte le potenze e i limiti dello stare insieme: un repertorio che va dal bene incondizionato alla soppressione, corrispettivo, appunto, dei due destini a cui si vota ogni aggregazione complessa nel suo avvenire (popolo, nazione, e così via fino all’intera umanità).
Tale carica perturbante, che ha diretta influenza sul modo in cui ci formiamo come individui, è la nota in maggior misura emergente dalle varie opere riunite nell’ultimo progetto di CCC Strozzina ‘Questioni di Famiglia’ – fortunatamente, bisogna ammettere, se tante delle teorie e dei saggi che trattano questo enorme argomento secondo sistematizzazioni storiche, sociologiche, antropologiche ecc. non procedono oltre la banalità di alcune formule (ma in fondo come potrebbe essere diversamente se ognuno di noi cova un segreto impronunciabile a riguardo della propria famiglia, per quanto è stata e per quanto potrà essere, e se è proprio tale segreto a restituirci un senso di appartenenza ad essa?).
.Assenza
Bene introducono Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini (1966, 1962, Milano; vivono e lavorano a Berlino), coppia nell’arte e nella vita, con Ecco il guaio delle famiglie. Come odiosi dottori sapevano esattamente dove faceva male, messa in scena di un interno domestico tramite l’assenza: voci riprodotte al posto delle persone, oggetti evocati da una linea bianca, un senso predominante di fuori luogo. Per opposizione l’insieme richiama il non-detto che sta a sostrato e anche modella le relazioni parentali; che cosa è accaduto in questa casa? pur non sapendolo spiegare sentiamo che la risposta sarebbe difficile, anche la conversazione con gli artisti dal telefono della fantasmagorica sala, della cui casuale possibilità il testo descrittivo ci informa, probabilmente non farebbe che infittire il mistero.
L’opera video di Courtney Kessel (1974, Usa; vive e lavora a Athens, Ohio), artista, insegnante, curatrice e ovviamente madre, trae forza dalla puntualità di un’azione simbolica. In Balance With, attraverso leggere modificazioni di peso date da cose quotidiane, è il tentativo di creare un equilibrio perfetto sull’altalena di legno condivisa con la piccola figlia. Condizione positiva che però si apre all’incertezza, sia perché la raggiunta armonia ha una temporalità effimera – un singolo movimento imprevisto basterà ad alterarla – sia perché a fronte di una donna decisa e autonoma da subito si ha intuizione della mancanza del padre, letteralmente fuori gioco.
Ancora un senso d’ineffabilità emerge dagli Home Movies di Jim Campbell (1956, USA; vive e lavora a San Francisco), vecchi filmati famigliari, personali o altrui, rielaborati digitalmente e proiettati con un sistema di luci al led. L’effetto finale è straniante in quanto opposto alla logica della visione: quelle che percepiamo da vicino come sezioni chiaroscurali in movimento, allontanandosi recuperano, pur senza la precisione dei dettagli, una valenza rappresentativa. Ecco allora che vi riconosciamo delle figure umane tra di loro in rapporto, delle azioni condivise, un’atmosfera gaia; elementi fragili a corrispettivo della delicatezza della nostra memoria – se i ricordi possono custodire ancora un po’ quanto è stato, il loro termina sarà comunque nella dissolvenza.
.Sostituzione
Trish Morrissey (1967, Irlanda; vive e lavora a Londra) è autrice di un’azione propriamente mimetica. In viaggio lungo spiagge inglesi e australiane l’artista ha chiesto alle famiglie incontrate di poter sostituire la figura femminile indossandone i vestiti, assumendone le pose e l’atteggiamento, per poi delegare lo scatto di una fotografia proprio alla donna che resterà per sempre fuori dall’immagine. Un paradosso costruito con le apparenze, come interrogativo sugli stereotipi della rappresentazione. John Clang (1973, Singapore; vive e lavora tra New York e Singapore) effettua un’operazione similare, ma più facile e di fascino inferiore: sovrapponendo persone fisiche e proiezioni da video webcam per ricomporre nuclei di persone distanti.
Hans Op de Beeck (1969, Belgio; vive e lavora a Brussels) invece nel video The Stewarts have a party translittera la famiglia in una dimensione immaginativa; individui che nella normalità sono di certo rispettabili, nell’altrove – un limbo bianco, privo di riferimenti spaziali e temporali – divengono marionette del ridicolo. In rapporto a tale disorientamento esistenziale i legami, i ruoli, le abitudini, in generale ogni definizione di famiglia, vengono ridotti a ben poca cosa.
.Affettività
L’intrico di relazioni di cui si è sempre soggetto e oggetto assume dentro la famiglia la specificità dell’affettivo, tanto in senso positivo che negativo. Nan Goldin (1953, USA; vive e lavora tra Berlino, Parigi e New York), che sin dagli esordi ha operato una declinazione del medium fotografico come ‘ascolto’ confidenziale, sembra negli ultimi anni aver compiuto un passaggio, presumibilmente indice di una maturazione personale. La massima attenzione si è spostata dalle modalità di scontro, in cui il sesso aveva una casualità determinante, alla fase successiva della generazione, caratterizzata dalla nascita e dal crescere dei figli; accompagnata da scatti ritraenti i genitori e l’amico-gallerista Guido Costa, Fire leap è una galleria fotografica (slideshow) di bambini piccoli con in sottofondo un brano cantato da loro stessi.
Il progetto Familienleben di Thomas Struth (1954, Germania; vive e lavora a Düsseldorf) ha avuto una genesi complessa. Originato da una serie di circostanze nei decenni passati esso prosegue senza un’intenzionalità programmata, infatti è in base allo svilupparsi imprevedibile dei rapporti che l’artista propone a una famiglia di arricchire questa serie con una nuova fotografia a loro dedicata. In accordo ai modi della Scuola di Düsseldorf i ritratti sono formalmente rigorosi: Struth pur lasciando ai soggetti la scelta dell’ambiente e delle posizioni, scatta con una macchina grande formato e una messa a fuoco complessiva. La risultante semplicità, o apparente verità, cela però delle questioni irrisolvibili: non solo la ricchezza dei dettagli conduce a una lettura su innumerevoli livelli (a quale dare priorità?), ma la disposizione autogestita dai protagonisti – sempre derivata dai rapporti di forza e dalla reciproca considerazione tra i membri a quel momento – viene costituendo un limite di comprensione oltre cui non si procede.
Un senso di impenetrabilità, nonché di sospetto per qualcosa di terribile sull’orlo di accadere, è la sostanza di Soundtrack di Guy Ben-Ner (1969, Israele; vive e lavora tra Tel Aviv, Berlino e New York), sequenza video con sovrapposto un estratto audio dalla Guerra dei Mondi di Steven Spielberg. L’accostamento impossibile finisce col fare deflagrare entrambe le dimensioni, sia quella narrativa di sapore Hollywoddiano, sia quella domestica incentrata sul rapporto tra il padre e i figli.
Una delle opere più interessanti della mostra, per il riuscito accordo tra immediatezza e intensità, è Mother Tongue di Chrischa Oswald (1984, Germania; vive e lavora a Berlino), video-installazione a due canali in cui l’artista lecca il volto della madre e viceversa. Pratica comune agli animali, ma vero e proprio tabù del comportamento umano, questo scambio di elementi organici tra simili dichiara tutta la potenza dell’affettività e del riconoscimento reciproco.
La profondità indelebile dei sentimenti è infine il soggetto di Les Tombes di Sophie Calle (1953, Francia; vive e lavora a Malakoff). La composizione fotografica di tre bare – madre, padre e figlio – spinge l’inclinazione narrativa dell’artista, di solito rivolta a dimensioni di estrema intimità, verso il suo punto limite: la mancanza di ogni referente che però non pregiudica il persistere del sentire.
Matteo Innocenti
ATPDiary