Ramdom è un’associazione di progettazione e produzione culturale e artistica[1] avviata nel 2011 a Lecce con DEFAULT Masterclass in residence – programma in cui venti artisti e dieci ospiti internazionali si confrontavano sul tema della città – e che dal 2014 ha intrapreso con Indagine sulle Terre Estreme una rilettura del territorio attraverso il contributo di artisti, curatori, ricercatori di varia provenienza.
Territorio del tutto particolare, da cui il titolo; poiché siamo a Capo di Leuca, propaggine ultima a sud-est dell’Italia, un effettivo finis terrae intorno a cui si scorgono, in vari momenti della giornata, le montagne dell’Albania e qualche isola greca, da parte opposta la Calabria. I mari Ionio e Adriatico per la geografia convenzionale s’incontrano nel canale di Otranto ma una memoria secolare, rafforzata da un effetto cromatico dovuto alle differenti salinità, vuole che la linea di contatto si faccia visibile proprio qui, a Santa Maria di Leuca.
«Le terre estreme sono terre di confine, terre di approdo, non di passaggio.» È come dire che in un luogo così caratterizzato – bello di natura e difficile da abitare, e il fenomeno del turismo passeggero estivo ne è una traduzione corrente – vi sono soprattutto due possibilità: la rinuncia o l’azione. Subire il termine territoriale come un orizzonte immodificabile oppure considerarlo quale stimolo generativo; la seconda scelta, qui portata all’atto, è indicativa di uno dei caratteri più forti delle residenze d’artista, cioè di quanto esse possano incidere a livello locale. E se anche poco ci si riflette ciò, oltre che importante per il tempo presente, è un’eredità per quello a venire.
Nel corso di questi anni l’indagine sulle terre estreme ha portato alla realizzazione di numerosi interventi artistici, non tutti qui riferibili per ragioni di sintesi. Conta prima di tutto rilevare la stretta e costante aderenza, pur in un processo di libera interpretazione, di tali interventi a delle singolarità in loco – per esempio una cava, una porzione di mare, una grotta, una tradizione.
Punto di riferimento delle varie esperienze intercorse e da attuare nel futuro, è divenuta dal 2015 Lastation, l’ultima stazione ferroviaria a sud-est (ancora in uso), sede operativa in quanto luogo di incontro, scambio, studio.
Simona Di Meo (Roma, 1986), Roberto Memoli (Modugno, 1989), Nuvola Ravera (Genova, 1984), Jacopo Rinaldi(Roma, 1988) sono gli artisti che hanno partecipato alla residenza dell’anno appena concluso, nel corso di un periodo complessivo di sei mesi strutturato tramite incontri di discussione, laboratori, ricognizioni.
«A Gagliano del Capo spesso il segnale radiofonico si sovrappone a quello degli Stati limitrofi della Grecia e dell’Albania, in un corto circuito che simbolicamente de-costruisce l’idea politica di confine nazionale. Partendo da questa suggestione, vorrei sviluppare un intervento che prevede la messa in relazione di tre comunità che risiedono nei paesi situati presso il confine politico dello Stato italiano, greco e albanese, in una “tessitura” narrativa di vicende e memorie personali, che testimoniano l’intreccio tra la storia politica delle frontiere e la vita delle persone» [2]. Da tale suggestione e in riferimento alla permeabilità del confine di per sé, Simona Di Meo nel corso della residenza ha dato l’avvio a un progetto che poi proseguirà negli altri due paesi Crossing borders is an intimate act: una ricostruzione che in modo complementare alla storia “ufficiale”, con attenzione particolare alle interrelazioni, dà corpo a ciò che per le persone ha significato e tuttora significa abitare/raggiungere/lasciare una terra di limite. La resa formale ad ora sono manifesti affissi in vari punti del paese con estratti da alcune delle dichiarazioni ricevute nel corso delle interviste, per esempio: «Era magica la Grecia narrata da mio padre. Aveva ancora i suoi Dei: Zeus si era nascosto dietro le nuvole e ogni tanto lasciava in libertà Afrodite.» Nella stazione le matrici delle stampe, poggiate a terra, presentate in forma scultorea ad esaltazione dei pieni e dei vuoti, suggeriscono lo stato di apertura, l’essere in fieri della ricerca.
La sera di vigilia della festa di Sant’Antonio Abate, da tradizione secolare salentina, nei paesi venivano incendiati cumuli di fascine e legni, le cosiddette “focare”, segno di buona fortuna. Roberto Memoli ne prende ispirazione, in modo particolare dal modo in cui le ritualità antiche e popolari tendono a trasformarsi e ad acquisire sempre rinnovato carattere, traducendo proprio tale mutabilità in una doppia forma. Un’installazione sonora che nella piazza centrale del paese ri-diffondeva il suono della legna a bruciare (insieme di registrazioni fatte nelle case degli abitanti) e un video, girato con gli strumenti reperiti in loco, in cui a incendiare, emanando una fiamma blu e verde, era un tronco di ulivo. Verderame si appunta verso il mutarsi delle materie e delle sensazioni, senza escludere un’evocazione alchemica – tramite prossimità: legna, fuoco, colore, suono e così via – e insieme rimanda alla contingenza della Xylella, batterio che ha stremato la coltura degli ulivi in Puglia negli anni recenti.
Nuvola Ravera inizia da una suggestione, o meglio da un complesso di suggestioni, a cui poi conseguono per via causale delle azioni: se supponiamo che un luogo, come un essere vivente, abbia una sua “anima” e sia dotato di ricordi (la cui forma visibile, mi viene di pensare, potrebbero essere i segni della trasformazione naturale ed antropica: assestamenti e subsidenze, crescite e deperimenti dei tronchi d’albero e delle piante, insediamenti e architetture, zone costruite ed altre trascurate ecc…) allora esso può venire interrogato con gli strumenti della psicanalisi. Dapprima l’artista ha intrapreso dei percorsi solitari, d’ascolto, e in seguito collaborato con una psicanalista locale; i materiali che ne sono conseguiti, riportati in forma scritta e assemblati in un testo unico, hanno costituito la base per l’azione performativa Mal di madre. Dentro uno dei bar di paese – quasi per niente frequentato dal genere femminile, come per una sorta di sottaciuto tabù – alcune donne di generazioni diverse, dietro un separé, proponevano un dialogo, in realtà già registrato, formato proprio dalle parole scritte in precedenza. È stata una parte del lavoro processuale Le storie dell’azzurro. Pratiche sulla soglia per malattie immaginarie, incentrato complessivamente sugli aspetti interstiziali che risiedono tra conscio e inconscio e tradotto tramite interventi eterogenei: un foro praticato su uno dei tanti edifici costruiti in zona e poi abbandonati e del tutto murati – come a rendergli una possibilità di vista o di voce; una linea orizzontale di cartoline turistiche a ostruire uno dei passaggi principali dello spazio espositivo della stazione; dei manifesti con la parola Fine montati su supporti funebri e posizionati in alcuni punti del paese liminari tra abitazioni e zone di campo.
Le automotrici ferroviarie negli anni del fascismo, agli inizi del decennio dei Trenta, presero il nome di “Littorina”. Jacopo Rinaldi risale a un cinegiornale degli stessi anni, in cui un paesaggio di Eritrea viene filmato proprio dall’interno di una di esse. I finestrini, aperture per la visione, secondo analogia vengono accomunati ai sedici fotogrammi della pellicola (un singolo secondo) utilizzata allora: così l’artista li stampa su altrettante tende e le colloca al posto delle originali in una delle automotrici, tuttora in uso, della linea ferroviaria FSE. Il nome dell’opera è Intervallo. I nuovi spettatori, i passeggeri di oggi, vedono una riproposizione del documento storico tramite una commistione di movimento reale, quello esterno, e di movimento indotto, quello che ognuno agisce nel proprio sguardo passando attraverso la serie degli stampaggi.
[1] Ne sono fondatori Paolo Mele e Luca Coclite, rispettivamente direttore e curatore artistico.
[2] Fonte: sinoallafinedelmare.ramdom.net