Comunicato stampa:
8+1
T-yong Chung, Serena Fineschi, Marco Andrea Magni, Virginia Zanetti
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Emanuele Becheri, David Casini, Giovanni Kronenberg, Enrico Vezzi
inaugurazione mercoledì 22 gennaio ore 19 / fino al 6 marzo
a cura di Matteo Innocenti
LATO, piazza San Marco 13, Prato
BBS, via del Carmine 11, Prato
Otto artisti in dialogo e una presenza.
Un progetto espositivo in due fasi, a Prato negli spazi LATO e BBS:
8+1 è un dialogo, poiché tale la struttura che sorregge l’evento nei suoi due momenti espositivi, avviato da una serie di incontri che si potrebbero definire fortuiti, e poi istintivamente indirizzato a una riflessione sulla natura indefinibile dell’arte.
Insieme a Emanuele Becheri, David Casini, Giovanni Kronenberg, Enrico Vezzi, T-yong Chung, Serena Fineschi, Marco Andrea Magni, Virginia Zanetti, – i protagonisti del progetto – e grazie alla disponibilità di LATO e BBS (ex galleria Gentili), abbiamo provato ad usare parole come incontro, casualità, dedizione, creatività, indeterminazione, mancanza, immaterialità, recupero, inizio; senza mirare ad altro obiettivo se non a rendere l’evidenza di una trasformazione positiva sempre possibile – in cui l’arte e le opere, a dispetto del parere comune, hanno un ruolo essenziale e necessario.
8+1 invece che formalizzarsi nella proposta di risultati finiti dà testimonianza della processualità innescata dall’inizio e che tuttora continua. 4 artisti hanno scelto direttamente, per ragioni di affinità, altri 4 a venire, instaurando un confronto reciproco; a seguito della prima inaugurazione del 22 novembre 2013 con T-yong Chung, Serena Fineschi, Marco Andrea Magni, Virginia Zanetti, la ricerca si delinea ulteriormente con Emanuele Becheri, David Casini, Giovanni Kronenberg, Enrico Vezzi.
Quanto è visibile è la traccia degli scambi intercorsi, dei tentativi sperimentati insieme, della volontà sottesa pur nella differenza delle inclinazioni individuali: le prime opere sono l’impulso per le altre e tutte, secondo le modalità che continuerà ad assumere il dialogo, potranno ri/modificarsi nel tempo totale del progetto.
Alternativa possibile alla compiutezza delle cose che è anche apertura alla causalità della vita, poiché ci interessa la questione nel suo fondamento: se concediamo all’arte quanto le spetta, cioè di essere una parte fondamentale e imprescindibile della realtà umana, possiamo ancora attribuirle il potere di cambiamenti profondi.
Tutti questi aspetti sono compresi simbolicamente nell’1, presenza (e assenza insieme), richiamato dal titolo.
Le corrispondenze originate dall’incontro sono varie per carattere e modalità: dall’intervento dell’artista nella realtà alla ricerca dell’assoluto, dall’opera come impossibile rappresentazione alla vertigine del nulla, dal carattere positivo della mancanza alla preziosità delle cose naturali.
LATO e BBS, spazi che uniscono attività professionale ed espositiva, con la scelta di instaurare una relazione danno esempio concreto e spontaneo di unione delle forze. Un invito a creare una rete di collaborazioni tra le varie dimensioni territoriali, indipendenti, legate in vario modo alla cultura, per un’evoluzione comune.
Opere:
T-Yong Chung – Boomerang
video-animazione 3D – 2013
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David Casini – Soulmate
scultura di gesso, cristallo di quarzo, pittura acrilica – cm 23 x 28 x 21 – 2009
È con un’inversione che questo incontro avviene nell’ambito della scultura.
T-Yong assai spesso opera una sottrazione rispetto a degli oggetti finiti; per esempio riproduzioni ordinarie dei capolavori rinascimentali, piuttosto che del Cristo e della Vergine, vengono sottoposti a un taglio delle fattezze così da stravolgerne la riconoscibilità e il valore iconico; oppure sono attrezzi arrugginiti la cui superficie viene riportata alla lucentezza, gambe di sedie stile rococò rese più essenziali da una verniciatura oro. In questo caso è una video animazione che, sebbene a livello formale possa apparire come un diversivo, nella sostanza mantiene il medesimo carattere netto e immediato: un boomerang, strumento di origine primitiva noto per la sua capacità di percorrere una distanza e di tornare al punto di lancio, separa una circonferenza che ogni volta tornerà a comporsi. La ripetizione infinita di tale azione rende vago qualsiasi riferimento temporale fino a generare la questione, in fondo irrisolvibile, su quale sia tra i due l’elemento di sospensione e quale quello di permanenza. Che cosa può assicurarci che il cerchio intero si trovi in uno stato di perfezione degradato dal taglio? Il modo stesso di proiezione, periferico rispetto all’ambiente centrale, smisurato in confronto alle pareti – quasi una decostruzione – sta a corrispettivo di quella comprensione che pur permettendoci di dominare in una qualche misura il fenomeno, allo stesso istante ne distorce la naturalezza.
Tutte queste componenti vengono riprese con una sorta di rovesciamento da Soulmate, installazione derivata per calco da un grande quarzo e sporgente dalla parete come ne fosse una naturale escrescenza. Innanzitutto la traslazione dei termini riguarda il materiale di composizione, ovvero il gesso della scultura al posto del minerale originale – in ciò comunque non contravvenendo allo specifico della ricerca di David, rilevabile nella combinazione sperimentale e immaginifica tra elementi naturali ed elaborazioni manuali (forma spontanea e trasformata, spazio reale e sua astrazione, stati originari e indotti; e in effetti dei vari tetraedri ricostruiti dell’opera uno resta autentico). Inoltre la forma elementare dei disegni di Boomerang sembra deflagrare nella geometria sofisticata e complessa dei cristalli.
Serena Fineschi – Paesaggio
policarbonato compatto, residui atmosferici, respiri condensati – 2013
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Emanuele Becheri – Impression#11
spider webs on adhesive paper, 100x140cm – 2010 – courtesy l’artista
Allorché l’altro si rapporta a me in maniera tale che l’ignoto in me gli risponde al mio posto, questa risposta è l’amicizia immemorabile che non si lascia scegliere, né si lascia vivere nell’attuale: la parte offerta della passività senza soggetto, il morire fuori di sé, il corpo che non appartiene a nessuno, nella sofferenza, nel godimento non narcisistici.
Soprattutto la puntualità di certi dialoghi, nell’acclarata corrispondenza tra domanda e risposta, fa emergere al fondo della nostra sensibilità il vuoto che l’ha nutrito; sentire ciò non corrisponde per forza a pensare che nessuna cosa abbia senso, semmai a riconoscere la potenza effettiva e inesauribile del linguaggio: il quale in ogni istante del suo pronunciamento non può che svelare, insieme all’affermazione, anche il nulla da cui deriva e a cui è stato sottratto per la necessità delle circostanze.
La disposizione frontale tra le opere di Serena ed Emanuele, correlativo di un’evidente affinità formale, è l’espediente per dichiarare la disponibilità dell’incontro in questo progetto e contemporaneamente il suo inevitabile venir meno. Un mancarsi a cui non si può sfuggire se davvero si intende testimoniare della profondità verso cui tendono entrambe le ricerche .
Con un intervento che riguarda lo spazio nella sua globalità – ovvero inteso nelle accezioni di ambiente, architettura, luogo di attività – Serena sostituisce una lastra in policarbonato compatto dall’alto lucernario con un’altra dello stesso materiale e delle stesse dimensioni. L’usata segna rispetto all’intatta una differenza organica, conservando su una parte della superficie trasparente tracce di agenti atmosferici e sull’altra la condensazione dei respiri; si tratta però di una difformità apparente: se adesso la possiamo cogliere appieno guardando in alto verso la porzione di cielo schiarita, e a livello occhi verso la materia originale ricca di stratificazioni, più avanti le due copie saranno accomunate da un similare grado di uso. È proprio tale provvisorietà degli stati che permette di avanzare una prospettiva del paesaggio più ampia, prospettiva che non riguarda solo il soggetto osservatore e l’oggetto guardato, ma la serie pressoché infinita di elementi, ora netti ora effimeri, che stanno tra i due estremi e di essi testimoniano la vitalità.
La serie Impressioni di Emanuele assume quale costante l’attimalità e l’incidere del caso, o della volontà ridotta al minimo possibile, nell’atto generatore dell’opera. Una carta adesiva di notevole estensione viene poggiata alla parete per il tempo necessario, ma molto breve, a fermare sulla superficie alcune tele di ragno – tra altre modalità di esecuzione vi sono l’ increspatura della carta, il movimento lasciato dalle polveri, i piccoli fori di ago; ciò che consegue, pur nella sua sveltezza di realizzazione, s’apre a scenari di forte complessità. Il controllo dell’autore che si sperde nella prassi – essendo inibita quasi completamente la visione durante l’azione. La non prevedibilità e modificabilità del risultato. Il tempo dichiarato e smentito, poiché ciò che si è depositato non corrisponde già alla natura originale, e ancora non è in quanto suscettibile di evoluzioni o decadenze. Infine la consistenza delle immagini, sempre residuale rispetto a “qualcosa” che rimane celato.
In questo mancare dei termini ai termini stessi, nella rappresentazione esperita come irrappresentabile, si esercita al livello delle singole opere e delle ricerche complessive il grado più forte di contatto tra l’uno e l’altra artista.
Marco Andrea Magni
Il pavimento dell’inferno è lastricato di buone intenzioni – cm 17,3×21 – ottone, velluto, incenso – 2013
Come mare e quando cielo – diam. cm 20 – oro giallo 24k in bagno di oro rosa – 2013
Certi rumori non vivono che di silenzio – cm 115×135 – velluto, oro 24k, incenso, mirra – 2013
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Giovanni Kronenberg
Escoriazioni antropologiche n. IV – cm – spugna di mare grezza, profumo di fragranza marina – 2012
Come in una storia ci sono dettagli cui non tributiamo importanza, salvo poi scoprire che da lì si è sviluppato il corso intero degli eventi. A volte si tratta di una parola, altre di un gesto, ma potrebbe valere per qualsiasi altro elemento; l’essenziale è che essi, seppur concreti, assumono valore soprattutto per ciò a cui rimandano. In Marco e Giovanni è intensa la fascinazione per questi splendidi “indefiniti” – la tensione delle cose alla pluralità dei significati, inesauribile divagazione da esperire, secondo le circostanze e la propria personalità, attraverso la riflessione piuttosto che i sensi. Allora si potrebbe dire che a principio di questa relazione vi sono due fragranze, una d’incenso e l’altra di mare.
L’aroma sin dalle epoche antiche offerto alla divinità e ugualmente impiegato nella cura del corpo, per tale sua doppiezza sta a idoneo corrispettivo delle opere di Marco che, dislocate come indizi ai diversi livelli dello spazio, sviluppano un percorso entro cui trascendenza e materialità non possono distinguersi. I velluti incipriati che di solito l’artista destina a un’esperienza tattile stavolta disattendono parzialmente il loro obiettivo. Ciò che era rappresentazione sensuale, uno sfiorare l’opera come si sfiorerebbe la pelle, muta in rapporto contemplativo: al modo delle piccole tavole anche la grande, delle dimensioni identiche alle finestre delle pareti di Lato e installata nel lucernario superiore, ostenta un’impalpabilità che le deriva dalla protezione sotto vetro. Qualità confermata dalla particolare consistenza di una base di mirra, granelli d’oro, e appunto incenso. L’opera si incarica in modo cosciente di un contrasto forte e di tutte le antinomie che ne derivano (in primis tra sacralità a profano); per questi motivi la potremmo definire un’icona del quotidiano, figurazione solenne di passioni istintuali. Quanto vale anche per la finissima circonferenza riprodotta secondo le misure del palmo dell’artista e ispirata dalla statua aureolata che si vede dabbasso negli studi degli architetti: una madonna della “cattiva coscienza”, se diamo credito alle storie secondo cui l’aureola di neon blu, così frequente in certe zone della campagna toscana – soprattutto nel pratese – segnalava la disponibilità ad accettare lavoratori in nero per la manifattura tessile. Tutto d’oro giallo e per un terzo bagnato nell’oro rosa, in tanta purezza il cerchio pare ricordarci che resta ancora qualcosa per cui valga la pena di arrossire.
In rapporto di cosciente prossimità Giovanni installa una grande spugna grezza pescata a fondo del mare. Il porifero, al pari della vertebra di balena, del dente di narvalo o della rosa del deserto, rientra in un repertorio personale di mirabilia: opere naturali di tale eccezionalità da potersi considerare polisemantiche in sé. Perciò l’intervento dell’artista, sotteso nelle fasi di ricerca e di recupero, si riduce al minimo sul corpo già straordinariamente segnato delle cose mirando ad amplificarne, non certo a ridurne, il mistero – mistero che può essere di conformazione, di longevità, di consistenza, di provenienza e così via. L’odore che la spugna ha perso fuori habitat, ma che immancabilmente richiama con la sua stessa apparenza, le è ridato dall’aspersione di una fragranza marina industriale. Così coerentemente l’operazione partecipa all’irriducibilità della questione tra opposti: se la mancanza a cui ci si riferisce non sia il grado massimo della presenza.
Virginia Zanetti – Vissi d’arte
Vissi d’arte – performance in collaborazione con la soprano Giustina Martino
installazione video HD – durata 14:21 – 2013
installazione sonora – durata 2:47 – master audio Alberto Pedani – 2013
fogli A4 per la città
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Enrico Vezzi
La Canzone di Elide (generating green noise), installazione sonora in collaborazione con Remo Zanin, dimensioni ambientali, 2014
Sleeping Balzac,proiettore dia valvolare, plexiglass, 2014
Benché possa essere determinata da tanti motivi, a innesco del processo creativo vi è sempre un senso di mancanza; non fosse altro perché con l’opera si decide di fare esistere quanto sembra mancare, o si tenta di trasformare la realtà e sé nel modo ritenuto migliore. Al punto estremo ciò diviene tensione verso l’assoluto – il desiderio per uno stato di perfezione svincolato dalle cose eppure in grado di comprenderle tutte.
Virginia ed Enrico condividono un’accesa sensibilità per questi aspetti, per esempio nel periodo recente entrambi hanno sviluppato il tema dell’utopia e delle sue significazioni concrete. Dunque è in modo del tutto naturale che si sono trovati e confrontati in un dialogo che unisce elementi materiali e ideali.
Vissi d’arte, vissi d’amore; tale nella celebre opera di Puccini il canto accorato rivolto dalla protagonista Tosca a Dio, quando il riscatto del proprio amore, imprigionato per motivi di politica e di gelosia, arriva a costarle la prostituzione. Le note unite di disperazione e di incredulità rendono la preghiera simile a un’interrogazione dall’intimo della coscienza, valevole in ogni tempo: perché la realtà nel suo avvenire spesso sembra trascurare, dimenticare, persino negare la bellezza? Tra i vari modi in cui potremmo intendere la domanda posta da Virginia attraverso il processo di citazione e di riappropriazione dell’opera lirica, ve ne sono alcuni che necessariamente conviene evidenziare. Innanzitutto il sovvertimento generato dalla semplice azione di cantare, non su un palco, ma nelle strade della città e si tratta ovviamente di Prato. Persone che ascoltando dubitano, si vergognano, si emozionano; se una singola voce può tanto ciò significa almeno due cose uguali e contrarie, una, che in relazione al quotidiano siamo poco abituati al bello, due, che tale deficienza non ci è affatto trascurabile nonostante la predilezione ormai invalsa per l’utile e il concreto.
Quindi il riferimento tutt’altro che ozioso alla difficoltà di essere artisti e di vivere di ciò; l’artista viene accettato prima dal suo sistema e poi da un pubblico più o meno vasto soltanto quando le sue opere sono divenute strumento, meglio se replicabile, d’arricchimento. Riconoscere invece valore allo sforzo intrapreso in nome di una ricerca libera, di una spinta inevitabile, corrisponderebbe a ritrovare nel quotidiano tante componenti che abbiamo oscurato. Allora la scelta di “dissociare” l’immagine proiettata del soprano Giustina Martino dalla sua voce diffusa nella via esterna e dalle parole del libretto operistico sparso per la città – quindi la mancanza di un elemento rispetto all’altro, che dà ambito al contributo d’immaginazione di chi assiste o partecipa – indica la volontà di raggiungere una diffusione il più ampia possibile, ben oltre lo spazio espositivo ed un pubblico limitato, affinché questa coincidenza tra vita e arte non esista solo ad uno stato teorico.
L’installazione La canzone di Elide è la messa in atto e il risultato di una ricerca ostinata e prodigiosa (davvero sospesa tra realtà e arcano). Dallo studio dei rumori elementari della natura, ognuno associato a uno specifico colore sulla base delle frequenze – bianco, rosa, marrone, ecc. – Enrico, in collaborazione con il musicista Remo Zanin, sintetizzandoli elettronicamente e riproducendoli all’interno di orci di vetro a contatto, ognuno con funzione di cassa di risonanza, ottiene per somma il cosiddetto “rumore verde”: la nota fondamentale che appartiene alla terra. L’esperienza sonora viene replicata in modo ciclico, da uno stacco di silenzio a un crescendo di suoni fino ad arrivare al punto estremo; l’ultima vibrazione, condivisa nell’ascolto, è il limite oltre cui non si può andare.
Riferimento “letterale” di Sleeping Balzac è il volume dello scrittore francese la Recerche de l’Absolu contenuto nell’immensa Comédie Humaine: il romanzo narra di Balthazar Claës, il chimico-alchinista che spende in maniera straordinaria e catastrofica la sua età, i suoi affetti e i suoi averi nell’inseguimento della sostanza fondamentale di tutta la creazione – ed è una sete che sospinge l’umanità da sempre, secondo i mezzi che sono propri ad ogni epoca, questo volere afferrare il segreto della vita, sentirsi sempre a un passo da essa e ancora continuare per colmare l’ultima distanza che ce ne separa. Ma la verità è strana, perché pur immaginandola illimitata pensiamo di poterla trovare in ogni minima cosa, oppure vale il contrario, che pur sapendola ovunque per incapacità di coglierla la sogniamo altrove: essa dunque è grande come un uomo sfinito dal cercarla, e piccola come la pagina che ha rivelato la sua storia.