Il dialogo è iniziato circa un anno fa. In un caffè di Firenze parlando con Alesia e Yuliya che vengono da Minsk in Bielorussa e da alcuni anni frequentano l’Italia. Notavamo come in quel periodo (e certo vale tuttora), pur in un contesto “globale” ritornassero idee e sentimenti assertivi di un’identità che per sentirsi forte si definiva ad esclusione delle altre. Ci sembrò che questo generasse un evidente controsenso: quale sarebbe infine l’identità “pura” da proteggere e dove si troverebbe? Chi sarebbe legittimato a stabilirlo? Continuando a discutere ipotizzavamo che a questo riguardo sarebbe stato più utile porci delle buone domande, piuttosto che formulare concetti assoluti come da più parti avveniva. L’arte è un modo potente e meraviglioso per interrogarsi. Da qui, sviluppando e affinando l’intuizione di partenza, siamo arrivati a definire A certain identity. Un progetto che mira a mettere in relazione artisti di differente provenienza intorno alla questione – o meglio alle questioni – identitarie. Il titolo gioca con una doppia interpretazione poiché la parola “certain”, in italiano “certa”, la si può intendere come aggettivo particolare ovvero sinonimo di certezza – l’identità in cui senza dubbio ci riconosciamo – invece come aggettivo indefinito, senza qualità né quantità prestabilite, indica un’identità tra tante altre possibili. Il centro, il nostro stimolo, è considerare l’identità come un fenomeno aperto, contro ogni tendenza a fissarla, restringerla, renderla elemento divisivo.
Quattro artisti della stessa nazionalità – scelti in collaborazione con le istituzioni museali o le Accademie di Belle Arti locali – vengono invitati a “rappresentare”, secondo la particolare inclinazione della propria ricerca, il fattore identità attraverso una mostra e un incontro pubblico. Ciò avviene in un paese; successivamente altri quattro artisti partono da questo paese per un’altra meta, e così via in un processo che andrà avanti nel tempo come a disegnare una mappa. L’Italia è la prima nazione ospitante, in rapporto alla Lituania. Perché questa scelta? L’Italia per ragioni contingenti e di praticità. La Lituania per un doppio ordine di motivi. Essa da qualche anno vive un fermento sia a livello sociale che culturale e artistico. Inoltre il 2018 segna il centenario della sua dichiarazione d’indipendenza, seguita nel 1919 dalla costituzione in Repubblica. Stiamo parlando di un paese che, come gli altri dell’area baltica, ha sempre dovuto proteggersi da vari propositi di annessione.
Costruire un progetto, quali che siano le sue dimensioni, richiede di avviare rapporti, scambiarsi opinioni, collaborare, aiutarsi, restare in apertura dialogica in modo costante. È complesso in quanto le azioni e le reazioni seguono un ritmo naturale e dunque variabile, inoltre se non hai riferimenti ti esponi a ogni risposta possibile, anche al rifiuto. Devo dire che siamo stati sempre fortunati. Il 2 aprile 2017 ho scritto una email a Kestutis Kuizinas, direttore del Contemporary Art Center di Vilnius (CAC), il principale centro per l’arte contemporanea in Lituania, l’oggetto era “a request from Italy”. Due giorni dopo ricevevo risposta da un suo giovane collaboratore, Audrius Pocius, che da allora, su mandato del direttore, ci avrebbe aiutati nell’eventuale realizzazione. Iniziamo la conversazione a distanza, visionando portfolio e scambiandoci opinioni. Il processo è avviato.
Intanto proseguo gli incontri a Firenze, ricevendo da Valentina Gensini direttrice artistica delle Murate. Progetti Arte Contemporanea la disponibilità ad ospitare il progetto.
Le cose andranno in modo tale che dopo un anno esatto, il 5 aprile 2018, inaugureremo.
Siamo all’inizio della primavera, spero che il tempo volga al bello. Negli scorsi giorni ha fatto freddo in un modo strano e mi piacerebbe che fosse il calore ad accoglierli. Arrivano di sera alla stazione, vado a prenderli, finalmente ci conosciamo di persona. Li accompagno alle stanze della fondazione dove alloggiano e decidiamo di andare a cena. Una trattoria tipica, parliamo di cibi e usanze. Uscendo portiamo via il “fiasco” di vino vuoto. C’è stato uno scambio email frenetico nell’ultimo periodo, da domattina inizieremo a lavorare.
Sono arrivati poco prima di me e hanno guardato con curiosità e attenzione lo spazio, la sala più grande con le colonne, il corridoio, i piccoli ambienti ora neutri che furono celle – fa impressione pensare che il complesso ha funzionato da prigione fino ai primi anni Ottanta. Capisco bene che per un artista sia molto differente immaginare lo spazio e poi vederlo dal vivo, cercare di comprenderlo, del resto ciò vale anche per il curatore. Eccoli al centro della sala Andrej, Arnas, Ieva e Audrius (Ignas il quarto artista, che sta per diventare padre, arriverà il giorno stesso dell’inaugurazione). Hanno avuto un’idea diversa per l’allestimento rispetto alle ultime valutazioni. Potrebbero mostrare le opere nello stesso ambiente, quello in cui ci troviamo ora, lasciando poi delle “tracce” altrove. Si conoscono, alcuni hanno già esposto insieme, il modo di presentazione che suggeriscono renderebbe visibile la loro vicinanza.
Durante l’allestimento di una mostra c’è una fase di apertura totale, quasi un disorientamento. Non prevediamo come andranno le cose ma sappiamo che ogni atto, di conferma o di ripensamento, deciderà della forma visibile del progetto. Di ciò che il pubblico guarderà. Certo, è un passaggio che si può ridurre d’importanza predeterminando i vari aspetti e non mettendoli più in discussione. A volte, data la natura dell’evento e altre circostanze, diventa necessario attenersi a un piano di riferimento ma credo che l’aderenza non dovrebbe mai essere completa. Perché è proprio qui che, nel rapporto con gli artisti, segniamo la differenza tra un curatore e un arredatore di interni (ed esterni). Chi è il curatore? Che cosa fa? Se ci riferiamo al contesto contemporaneo di solito il curatore non è uno storico dell’arte in senso accademico, non un sociologo, un antropologo, un filosofo, un politico, un artista – così per sofferta mancanza spesso si arroga ogni ruolo. Io ritengo che sia un medium in senso letterale, un termine di mezzo. Tramite lui delle espressioni artistiche, di per sé autonome, trovano occasione di confronto critico e un’esposizione attinente. Non uso a caso il termine attinente, perché sono il pensiero e la scrittura del curatore ad andare verso l’opera, approfondendola con metodo filologico, e non viceversa. A certain identity, come ogni altra mostra che ho curato non è a tema. Sarebbe presuntuoso desiderare che le ricerche degli artisti assumessero significati estranei o esclusivi rispetto all’ampio spettro che ogni opera riflette.
Discutiamo la loro idea, notiamo che alcuni dei lavori si richiamano per qualità formali o concettuali. Quanto propongono è intelligente e fattibile. Si presentano però due rischi. Uno è che potremmo dare l’impressione di avere valutato diversamente lo spazio, come se una sua zona fosse per qualche ragione più importante. L’altro è la concentrazione eccessiva, la quale non lascerebbe il giusto “respiro” alle opere – dobbiamo considerare che questa mostra ha anche il compito di introdurre alla ricerca degli artisti. Alla fine scegliamo un percorso che abbia maggiore diluizione, che permetta di apprezzare le opere nella loro singolarità ma con la possibilità di creare accostamenti e relazioni.
Uscendo dalla casa di famiglia Andrej si trova davanti la foresta. Non è un fatto raro in Lituania. Sin da piccolo ha visto nella natura una risorsa per continue scoperte. Suo padre è un eccellente cercatore di funghi e lui spesso lo accompagna. I funghi sono diventati nella sua immaginazione un simbolo di meraviglia e prodigio. Ciò che un attimo prima non c’era adesso appare. Sono reali o artificiali? Quando ha vinto il Kunsthalle Wien Prize, nel 2016, Andrej ha realizzato una mostra personale, The Sarcophagus, in cui a dominare erano proprio i funghi: il titolo derivava dal blocco di mattoni al centro dello spazio, privo di fessure, che durante l’inaugurazione veniva sfondato con un martello pneumatico per fare uscire lui stesso. Così abbiamo scelto di partire dagli artificial mushrooms. Alcuni elementi sono decisi. Una grande foto in pvc di un fungo dipinto su vinile appeso ad alcuni metri di altezza, da albero a albero, lungo una strada boschiva – è stato sospeso davvero in origine, l’operazione, per questa e altre forme pittoriche, avviene nottetempo, così le persone che si trovano a passare la mattina lungo il percorso trovano l’immagine inaspettata. La stampa sta al termine del corridoio, come a sfondare il limite architettonico. Avvicinandosi si trovano altri elementi. Il video Caves, una vera e propria guida per la ricerca dei funghi. Nelle varie inquadrature vediamo Andrej e lo sentiamo spiegare. Con grande abilità riesce a raccogliere dei bellissimi esemplari da ogni cavità, nel terreno, dentro un tronco abbattuto, scostando dei sassi, sotto delle tavole di legno, in una betoniera. L’ironia torna spesso in ciò che fa. Avevamo concordato che durante la sua residenza qui a Firenze sarebbe andato a cercare funghi. Lo accompagna un mio amico. Partono nel primo pomeriggio, la sera al ritorno hanno un ricco bottino. Uno spazzolino da water, una pompa, altre cose che non riesco bene a capire cosa siano, forse un pezzo di caminetto e un blocco pesantissimo di cemento. Ognuno di questi elementi, capovolto, ricorda la forma dei miceti. C’è anche il fiasco di vino che abbiamo preso la prima sera, rovesciato si trasforma. Tre funghi invece sono in ceramica e fatti in studio prima di partire, praticamente è una successione di pezzi uno sopra l’altro, come bene spiega il titolo: 1.A real ceramic mushroom 2.A real ceramic mushroom on a ceramic mushroom 3.A real ceramic mushroom on a ceramic mushroom on a ceramic mushroom.
Durante l’inaugurazione Andrej, vestito in stile boscaiolo – salopette blu e berretto da baseball rosso – si è messo a spostare le cose, a farfugliare delle frasi, poi ha aperto uno sportello della parete di fondo ed ha regalato a tutti dei piccoli biscotti, ovviamente a forma di fungo, ricoperti di cioccolato.
Quando ho visto per la prima volta la documentazione fotografica del lavoro di Ieva ho avuto un’impressione particolare, mi ha colpito la combinazione tra l’apparenza incisiva, secca, quasi brutale, e l’insieme dei significati poetici espressi dalle parole. Lei lavora con la scrittura e il disegno, naturale evoluzione del percorso di formazione pittorica che ha svolto negli anni. Di solito interviene sulle pareti del luogo espositivo, usando dei fogli adesivi di carta bianca o trasparente, riportando un repertorio di frasi che via via “colleziona”. Queste espressioni hanno a che fare con una particolare declinazione della tristezza, quella che avvertiamo quando pur in assenza di un disagio visibile non ci sentiamo bene. Un senso sottile di malessere, simile alla malinconia, penetrante ed evanescente insieme, che si porta dietro previsioni di sconfitta, fallimento, inadeguatezza, talvolta di catastrofe. E, ulteriore stranezza, vi resta insita una dose minima di ironia: il soggetto riconosce di stare esagerando eppure non sa fermarsi. Un errore dopo l’altro… Come farai a sopravvivere?… Questa è la vita e non fantasia. Sono alcune delle frasi scritte da Ieva. Usa la lingua madre del luogo in cui si trova ad esporre. Infatti la sua recente personale a Londra era intitolata Mother Tongue. Con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, che ci hanno dato un aiuto essenziale per l’allestimento della mostra, abbiamo girato gran parte del centro città alla ricerca dei fogli adesivi da applicare ai muri. Niente da fare. Quelli che trovavamo o erano plastificati o troppo piccoli oppure non adesivi. Alla fine Ieva ha scelto un mezzo alternativo, a cui stava pensando da tempo. Il sottile telo che usiamo per proteggere la mobilia dalle gocce di vernice durante l’imbiancamento, aderisce per effetto elettrico alle pareti. Basta poggiarli e lì restano. Così lei ha scritto le sue frasi e con tocchi leggeri le ha distribuite in vari punti dello spazio. Al piano terra, come ad accoglierci, leggiamo Tristezza lituana.
Ausra, che ha fatto da interprete durante il talk con il pubblico, mi dice che non è una pratica antica, che lei stessa ha imparato a scrivere usando quel manuale. Le stavo riportando ciò che mi ha spiegato Arnas. In Lituania per imparare a scrivere si usava un libro che aveva in cima a ogni pagina una frase, quindi le persone copiando la scritta, riga dopo riga, potevano impratichirsi. I lituani sono orgogliosi della loro lingua baltica, tra le più arcaiche della famiglia indoeuropea, distinta dal ceppo slavo e dal russo. L’alfabeto lituano si compone di 32 lettere, considerando quelle con segni diacritici. Arnas ha lavorato su alcune di queste per Letters from Home. Noi siamo abituati a pensare alla scrittura come elemento bidimensionale poiché il suo supporto è la pagina. Situandosi in un territorio ibrido in cui confluiscono le arti visive, la linguistica, la filosofia e la storia l’artista ha scelto di sviluppare un video che sperimentasse le tridimensionalità delle lettere, facendole formare da un fondo scuro tramite delle animazioni (appunto 3d). Ecco che esse diventano delle sculture virtuali, mostrando un’inedita “pienezza” che ci spinge a interrogarci sul nostro rapporto con il senso e i significati. Il progetto è iniziato come dottorato di ricerca all’Accademia di Belle Arti di Vilnius, nella particolare declinazione dell’opera, realizzata per A certain identity, le forme hanno un riempimento visivo, appunto le pagine del manuale a cui mi riferivo prima. La lingua ci connota come individualità e ci permette di esprimerci. Può essere valutata un fattore di contrasto, da nazione a nazione, oppure un terreno comune su cui comprendersi. Mi hanno molto colpito il metodo e lo scrupolo di Arnas. Un’attenzione al minimo dettaglio. Ha lavorato varie ore al video proiettore, provando posizioni, applicando delle maschere, fino a che non ha ottenuto un’immagine del tutto soddisfacente.
Ignas è arrivato a inaugurazione cominciata, l’ho riconosciuto dal volto ma dapprima l’occhio è andato sulla sua giacca. Un giubbotto pieno di toppe con simboli che immagino siano inventati e disegnati da lui. Si muove veloce, è cordiale ed entusiasta. Lo trovo proprio sotto la sua installazione, se la ride da solo. Più tardi, quando saremo sulle scale di Piazza Santissima Annunziata a parlare bevendo vino, una mezza dozzina di persone, mi dirà che sua nonna fu internata in un gulag e che sua madre è nata lì dentro. Nella sua ricerca, come compositore e artista visivo, resta costante il riferimento al linguaggio del potere. Il potere inteso in senso lato, nelle manifestazioni che sembrerebbero neutrali. Verbali di polizia, referti psicologici, istruzioni, input tecnologici, quale che sia la fonte ciò che egli compie è un minimo slittamento: finalizzato a mostrare la violenza e la pervasività dei meccanismi che regolano la convivenza sociale. Compulsion to repeat è un alta torre di acciaio con sopra uno speaker da studio. In questo caso c’è un’ispirazione diretta, Good Boy Bad Boy (1985) di Bruce Nauman, opera video in cui due attori ripetevano la declinazione del verbo “to be” un centinaio di volte aggiungendo la frase del titolo, passando da un tono neutro a uno furioso. Le stesse parole dunque, ma effetti diversi. Ignas ha sintetizzato una voce artificiale in grado di replicare le inflessioni emotive, anch’essa si riferisce alla forma verbale “to be” per associarvi una serie di stati d’animo che ci provengono dal mondo dei social media (emoticon ed emoji): you are incredible, we are perfect, this is shocking, I shut up, we are stupid, you are shit. Il suono riverbera senza sosta nella sala grande che di per sé ha un’acustica terribile: due persone a un metro di distanza non riescono a sentirsi. Qui però la cosa volge a nostro favore poiché dà un carattere ancora più alienante all’installazione.
L’incontro con la Lituania è stato davvero stimolante. Conferma che il paese sta attraversando un periodo di crescita e che la qualità artistica è molto alta. Sarà interessante confrontarsi tra un po’ di tempo, magari qualche anno, e vedere come abbiamo proseguito i nostri percorsi. Intanto A certain identity continua. La prossima tappa dovrebbe essere la Bielorussia. Servirà almeno un altro anno. Una nuova avventura.