Associazione culturale Artforms presenta:
“Fuori dal trecciato”
Le relazioni prendono forma
di: Emanuela Baldi | Manuela Mancioppi | Tatiana Villani
con un intervento di Valentina Lapolla e la collaborazione di Matteo innocenti
Arforms – Interno8 – via Genova 17/8 Prato
L’intenzione di tre artiste di estendere l’opera in modo concreto da sé all’ambiente e verso gli altri. Lo strumento è l’intreccio; quanto stringe, ciò che segna un punto, diventa essenziale alla costruzione di una trama (cittadina e non solo): non una forma precisa ma un insieme di forme partendo da materiali recuperati, come somma delle azioni, dei pensieri e delle parole di ogni persona che ne abbia preso parte.
In occasione dell’inaugurazione di Artforms in Interno8, le tre artiste Emanuela Baldi, Manuela Mancioppi, Tatiana Villani – per la prima volta coautrici di un progetto – ideano un percorso di relazione creativa interpersonale.
Seguendo l’invito di Artforms, associazione pratese che si propone di sviluppare progetti culturali e artistici basati sullo scambio e l’interrelazione, “Fuori dal trecciato” si dà come intervento a più livelli, con l’obiettivo di aprire lo spazio Interno8 alla città nel suo complesso.
Per più giorni le artiste lavorano alla creazione di una grande installazione fatta di stracci e scarti della produzione tessile locale, invitando a una partecipazione libera per contribuire alla creazione dell’opera.
Risultato dell’apporto che tutte le persone hanno dato, Fuori dal trecciato si estende dentro lo spazio e verso l’esterno, come un ambiente “vivibile”, aperto a ulteriori incontri, attività, eventi. Durante tutto il periodo della mostra le persone potranno entrare in contatto con l’installazione camminandovi sopra, sedendosi, conversando con gli altri, assistendo ad eventi, eventualmente contribuire a una sua ulteriore estensione.
Derivata da dinamiche di partecipazione, Fuori dal trecciato comprende anche l’opera specifica “Chincaglierie” dell’artista Valentina Lapolla, e un testo inedito del curatore Matteo Innocenti.
Four easy pieces
di Matteo Innocenti
Le artiste – Emanuela Baldi, Manuela Mancioppi, Tatiana Villani – invitate da Pamela, Rachel e Dominique di Artforms, sulla base di una condivisa volontà di partecipazione e di apertura, hanno deciso di recuperare una quantità enorme di tessuti industriali, in prevalenza scarti di lavorazione o rimanenze, per assemblarli in un’installazione scultorea espansa che dall’interno dello spazio di archeologia industriale Interno8, “invadendo” suolo e pareti, si protende verso l’esterno. Tramite modi vari di comunicazione, dal disseminare indizi minimi nelle vie della città al comune passaparola, si è scelto di coinvolgere un numero ampio di persone per la realizzazione di quella che, per certi versi, può essere definita un’impresa.
Nella stessa ottica di scambio e di dialogo, mi pare in modo naturale se considero alcune affinità di percorso, è stato proposto a Valentina Lapolla come artista e a me come curatore di dare un personale contributo all’opera.
La mia scelta ha previsto di sviluppare una riflessione divisa in quattro punti – Four easy pieces, titolo che con ironia si riferisce a un noto film degli anni settanta, e che mi pare bene si presti a giocare con questa installazione che è costituita da un numero pressoché infinito di parti: ho preso spunto da alcuni suoi aspetti, che mi sembrano fondamentali o caratteristici, declinandoli fino a incontrare dei temi ricorrenti nella mia ricerca curatoriale.
1. La strategia delle piccole azioni
È probabile che il nucleo delle relazioni umane e delle società, provenendo dal bisogno di ottenere insieme quanto alla singola forza veniva precluso, sia riferibile a poche, semplici ed efficaci azioni (sorte ad uno stadio precedente quello linguistico). Dà un senso di contrasto pensare ad un’attualità che pur intensificando sul piano nominale le occasioni di incontro, conoscenza, scambio tra l’io e l’altro, si sta evolvendo – rispetto a sé stessa, non rispetto ad un assoluto – nella direzione di progressive smaterializzazioni delle modalità attuative stesse. Conosciamo ormai il pensiero che da quasi un paio di secoli avverte sui pericoli di alienazione conseguenti alla perdita di contatto individuali e fisici col mondo. Con uno sforzo di concentrazione, neanche troppo intenso, possiamo accorgerci di quanto l’economia e la tecnologia, a dispetto di un’apparenza di accessibilità, rivelino al fondo, almeno nei modi predominanti della loro proposta e del loro uso, una pericolosa duttilità nell’esercizio del disorientamento e del controllo – indici di speculazione delle borse, terrore per bancarotte statali, illimitati database di informazioni a uso discrezionale, dispositivi iperfunzionali che sottraggono tempo più di quanto non ne facciano risparmiare… ecco spesso mi chiedo a che punto sia l’arte in confronto alla nostra situazione. Mi rispondo che è in ritardo, o meglio: essa è rimasta coinvolta in tali dinamiche senza averle sapute anticipare, e dunque vi resta dentro come annullata – assai difficilmente riesce a darsi come alternativa o a suggerire deviazioni possibili. È addirittura in questione l’ambigua partecipazione a questi stessi processi, che essa dovrebbe invece tenere in modesta considerazione oppure provare a trasformare: ipervalutazioni delle opere d’arte, meccanismi torbidi di legittimazione, falsificazione patologica dei rapporti professionali e così via. Non è qui il contesto per approfondirli, mi interessa però il fatto che tra essi ve ne sono alcuni in grado di incidere a livello storico. In una fase in cui come mai prima si dispone di una manifesta libertà di espressione (il che non comporta che tale libertà sia fattiva) assistiamo a un desolante conformismo delle idee, delle intenzioni e delle forme, nonché a una riduzione angosciante della considerazione – esclusa la catarsi di certe celebrità – che la società riserva all’artista.
Ritorno all’inizio; nella costruzione di un percorso non subìto ma determinato, tra le varie possibilità l’arte può ricorrere al recupero o all’invenzione di piccoli gesti: nel nostro caso è l’intreccio di stoffe, che richiama tante altre azioni comparabili – il primo riferimento va alla civiltà contadina del secolo passato, al trovarsi serale davanti al fuoco raccontandosi storie, mentre le mani femminili filavano e quelle maschili s’impegnavano in facili lavoretti; oppure ci ricordiamo degli operai di questa città, i pratesi, che iniziavano dalla divisione dei “cenci” secondo colore e tipo per svolgere la rigenerazione dei tessuti. Il richiamo a tali attività non intende essere una concessione al passatismo, tutt’altro; a breve entreremo nella fase in cui nessuna delle generazioni vive le avrà sperimentate direttamente, perciò si tratta di sottolineare l’esigenza, sentita ormai a più livelli, di un approfondimento della nostra cultura genetica per riuscire a riconoscersi nel presente con profonda coscienza. Nella dimensione dell’arte è possibile recuperare le azioni eliminate – anche fosse entro un tentativo a vuoto, non ha importanza – per sapere che delle cose sono esistite e che, se noi lo vogliamo, hanno ancora facoltà di esistere; l’orizzonte della nostra civiltà non deve per forza coincidere alla sparizione di ogni “prima”.
La strategia delle piccole azioni riconosce che, rispetto a ogni tempo, siamo noi a decidere quanto tenere e quanto lasciare – e che lasciare non significa abbandono. Mentre la novità che esclude quanto l’ha preceduta, a un certo punto si dimostrerà debole o invivibile.
2. Costituzione nomadica
Con un’anticipazione sorprendente rispetto a condizioni culturali e tecnologiche che poi si sarebbero verificate, Gilles Deleuze e Félix Guattari in Mille Plateaux sviluppavano una riflessione intorno al concetto di rizoma in opposizione a ogni gerarchia di tipo arborescente “Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante”; pur con le differenze del caso, questa installazione pone delle questioni attinenti.
Un numero ampio e vario di persone è intervenuto, in un periodo di tempo determinato, partecipando attivamente alla realizzazione: chi già sapeva come fare, a chi è stato spiegato, ognuno ha contribuito con un frammento a ciò che alla fine si ammira come effetto complessivo. Inevitabile che ogni intrecciato abbia fattura e gusto particolari, quelli del suo artefice – fattore che comporta una diversità imprevedibile. Inoltre in fase di assemblamento la scelta delle artiste, suppur discrezionale, non poteva che affidarsi all’intuito ed alla casualità: l’intervento compositivo non è stato trasceso, ma la sua portata è venuta fortemente riducendosi. Ci circonda un movimento né preordinato né univoco, diramato in tante direzioni quante sono possibili nell’area a disposizione, e tale movimento dà conto, nella mancanza di un centro, di tutta la variabilità intercorsa nella sua formazione: l’insieme non è la somma delle singole parti, ma immagine del variabile avvicendarsi delle relazioni. Soggettività che stimola e coinvolge anche il piano visivo percettivo; l’osservazione muta in vagare da stimolo a stimolo, da curva a curva, descrivendo alla fine un andamento di tipo sinuoso.
Ad un livello ulteriore questi stessi valori riguardano il rapporto con la specificità del luogo. La crescita degli intrecci è organica – anche in senso fisiologico, dato che essi possono venire intesi come un corpo in crescita – e perciò procede per adattamento nell’ambiente in cui si trova, avvolgendo suolo, pareti, elementi d’arredo e di lavoro. Per di più si intuisce che l’estensione presente già rimanda ad una fase successiva, ad altri spazi e collegamenti (e si tratterà di una prosecuzione, non di un superamento). La struttura non sottende limiti precisi, la fissità non le è propria; ciò la rende un’installazione “nomadica”.
3. Evanescenza dell’autorialità
Ne ha avuto intuizione e poi capacità teorica Nicolas Bourriaud nella sua Esthétique relationnelle – coniazione che al pari di ogni altra ha sofferto della strettezza dei termini, non fosse altro perché ogni opera d’arte pone di necessità delle relazioni; la tendenza che dall’inizio degli anni novanta assumeva costanza, a considerare le opere come sistemi, più o meno diretti, per lo scaturire di rapporti tra arte e pubblico, talvolta all’interno del pubblico medesimo.
Fuori dal trecciato s’inserisce appieno in tale contesto, con conoscenza e coscienza delle modalità che da quella fase si sono diffuse e solidificate. L’installazione, terminata momentanemente in vista di sviluppi futuri, è offerta alle persone come un’occasione: tutta la sua superficie è percorribile, tangibile, utilizzabile. Ciò significa che le persone potranno starvi sopra, lì parlare, riposarsi, guardarsi intorno, discutere insieme, assistere ad eventi di vario genere. Rientra nella sua natura anche l’interazione con altri apporti. Se già il mio testo, che scaturisce dall’incontro con le artiste e con la loro idea, si pone a metà tra le specificità di un’opera e quella di una ricerca critico-curatoriale, l’aspetto emerge con più evidenza grazie al contributo di Valentina Lapolla. Invitata a intervenire in modo libero e personale nella documentazione dell’intero processo, la sua scelta si è indirizzata a una traduzione degli elementi primari; la registrazione di tutte le fasi di lavorazione collettiva delle stoffe – costituita da suoni, voci, rumori, silenzi – è stata trasformata in un’emissione di vibrazioni: quanto induce il movimento di piccole sculture formate con staffe minime a sostegno di anelli e perline da bigiotteria. Da qui si genera un nuovo sonoro, trasfigurato. Chincaglierie è il tentativo, meditato da un’intepretazione artistica, di restituire in forma udibile tutta l’energia di un’azione complessa.
Un’opera si aggiunge ad un’opera, ed eventualmente altre se ne potrebbero aggiungere qui o altrove. Considerando tale commistione, oltre l’aspetto già specificato dell’insieme composto da tante parti che le persone hanno intrecciato, si percepisce come sia a un livello quantitativo che qualitativo l’idea di autorialità ne risulti mutata. Si tratta di una tematica che credo dovremo trattare molto nei prossimi anni, l’evanescenza della componente autoriale: non nel senso di un citazionismo o di appropriazioni condotte al parossismo (sono queste pratiche già sperimentate) ma in quello di una partecipazione così comprensiva da invertire, in alcuni artisti, la gerarchia tra la causalità dell’opera e la serie di effetti. Si avranno artisti desiderosi di riconoscersi nel flusso di situazioni scaturite, cioé nell’imprevedibilità del processo, senza più rivendicare una paternità esclusiva.
4. Un’eccezionale normalità
La scelta di ricorrere ai tessuti, in una città che con essi ha costruito carattere e ricchezza, non intende avere significazioni sociali particolari (crisi economica, conflittualità con i gruppi immigrati, inefficienza delle risposte politiche ecc…); ci saremmo addentrati in un contesto esplorato fino all’abuso, ad alto rischio d’ipocrisia. Qui conta un altro aspetto: che gli scarti di stoffe sono la materia comune di Prato, e perciò l’elemento più consono ad instaurare un dialogo – così come nella scelta di una lingua si ricorrerebbe a quella parlata in loco (è anche importante che si tratti di materiali da riciclo, secondo l’obiettivo di una riattivazione creativa e senza ulteriore dispendio).
I tessuti, passati di mano in mano e in continua trasformazione, sono un mezzo effettivo di contatto tra l’arte e le persone. Ciò ci porta a una delle controversie più difficili, posta ormai da vari anni, ovvero lo iato tra le opere contemporanee e la percezione diffusa. Dati i fattori della situazione, conviene non illudersi sul fatto che esistano soluzioni uniche; sarebbe ingenuo e scorretto ritenere che un’installazione partecipata debba coinvolgere più di un’installazione in sé chiusa; oppure che un tema sociale appassioni più di una pura questione estetica.
Che cosa possiamo fare noi, che siamo attivi in questo ambito, per avvicinare di nuovo i due elementi della separazione? Io ritengo che sia necessario agire al massimo del valore e della sincerità. La noia e l’incomprensione provengono da opere e da scelte critiche che con atteggiamento astuto e mimetico, mutatis mutandis, propongono questioni formali o contenutistiche affrontate se non risolte da decenni; la noia e l’incomprensione si ingenerano per il continuo replicarsi di sguardi proiettati alla superficie del passato – mai più di qualche decennio – piuttosto che alla sostanza del presente (il che significherebbe già anticipazione del futuro).
Fuori dal trecciato è un’azione normale che si conduce con atteggiamento normale, ed è proprio ciò che con naturalezza ne scaturisce – lavorare insieme, conoscersi, parlare in modo scherzoso o serio, assistere a qualcosa – a valere da testimonianza eccezionale di una necessità attuale. Sentiamo il bisogno di ricostituirci, a partire da comunità minime ma meglio partecipate in cui l’identità dell’uno si senta attratta, e non sopraffatta, dalla moltitudine che le consegue. Potremmo notare come le intenzioni generali della politica a riguardo delle integrazioni siano il sommo dell’ipocrisia e come da esse non derivi alcun risultato, anche quando vi si puntino attenzione e risorse; lo faremmo non per polemica sterile ma per manifestare che un esito del tutto diverso hanno invece quelle azioni che nascono dall’indipendenza dei singoli (noi): soltanto in una genuina interazione lo scambio io-altro, qualsiasi siano le provenienze e gli interessi, trova modi, facili o difficili che siano, di risolversi in qualcosa.
Declinato all’arte credo che ciò, ora, divenga determinazione a rifuggire le dinamiche incontrollabili di legittimazione elitaria – l’artista di turno che esplode, percepito dal pubblico come un fenomeno meteo – e le speculazioni economiche che dovrebbero fare il paio con quelle estetiche. Ricostruire e ricostruire ancora, con lo sguardo saggio di chi conosce i percorsi storici, per determinare relazioni più sane tra gli artisti e la società: non da ultimo la scelta che ai primi venga riconosciuto un pieno rispetto (il che comporta una più estesa capacità di giudizio, quindi maggiore cultura e discernimento per tutti; noi restiamo in attesa, contribuendo per quel che ci riesce).
http://www.pratosfera.com/2015/06/26/follow-friday-artforms/
http://info-artforms.tumblr.com/