Artext – Quale l’intento di questa doppia esposizione che ha come titolo – La sovversione dell’oggetto?
Matteo Innocenti – Oltre l’occasione contingente che ha portato a una definizione formale – la recente edizione
di .CON|Contemporaneo Condiviso e la collaborazione con gli spazi LATO e MOO di Luca Gambacorti (proprio da lui è venuto il primo spunto) – direi che la sovversione dell’oggetto è un tentativo.
D – L’interrogazione sull’oggetto e le possibili modaltà di relazione hanno una lunga tradizione. Si tratta forse in questa circostanza di rinnovare la problematicità della visione, dai suoi limiti di appartenenza estetica e determinazione – misura dell’esistere.
M T – Ti ringrazio per la domanda, mi permette di specificare un aspetto fondamentale. La sovversione dell’oggetto non ha alcuna mira né pretesa di intervenire in senso storico o affermativo riguardo al complesso e vessato rapporto tra opera d’arte e oggetto – se ciò in una qualche misura è avvenuto si è trattato di una conseguenza complementare, non diretta. Peraltro la considero una di quellle questioni che hanno la loro maggiore ragione di essere, e la loro proficuità creativa, proprio nel venire continuamente indagate senza possibile soluzione; ciò riguarda l’ambito più generale dell’estetica, entro cui non si arriverà mai a una definizione certa sullo statuto dell’opera e dell’arte – in ogni periodo abbiamo approfondimenti in ulteriori direzioni grazie alle domande poste in precedenza. Comprendo che una tale impostazione possa apparire strana: a fronte di un titolo e di un progetto sviluppato in maniera inerente ci si attende una relazione logica tra i due elementi. Bisogna valutare che in questo caso l’oggetto e la sua sovversione sono soprattutto un mezzo per dare possibilità e spazio all’espressione dei giovani artisti coinvolti. Arrivo alla sintesi, mi interessava che la mostra fosse uno stimolo all’emergere di sensibilità particolari rispetto a uno stato di cose convenzionale, abitudinario, costrittivo. Quindi non una mostra tematica, formato in cui non credo e che anzi ritengo forzoso, piuttosto una prova in tempo reale. Io ho soltanto dato un orizzonte (ampio) di senso ed ho agito come mediatore. Non ho scelto nessuna opera – sono state tutte realizzate in modo apposito e spontaneo – ho ascoltato, dialogato, al più dato dei consigli.
A – L’indagine attorno alla natura degli oggetti d’arte e il loro funzionamento richiede una partecipazione radicale da parte del pubblico… e un’attenzione al contesto nativo degli oggetti della contemplazione – se questa dinamica creativa non viene superata si resta in uno stato di sublime alterità; cosa si può rendere necessario per interiorizzare questo tipo di esperienza…
M T – A mia opinione tocchi uno degli elementi sensibili e scoperti del nostro tempo. Se osserviamo l’arte nel corso dei secoli il rapporto tra opera e pubblico si è generalmente risolto in una forma di compassione (nel suo senso etimologico, non nella declinazione religiosa) o compartecipazione. Del resto come potrebbe essere diversamente? L’artista è una persona speciale nel corpo della società ma non è un estraneo. Andando più a fondo, se l’arte non avesse risposto a un’esigenza umana profonda ma a una più limitata necessità di sperimentazione formale, non credo che sarebbe durata nel tempo o che avrebbe mantenuto la sua centralità. Per quanto non possiamo stabilire quali fossero le intenzioni originarie dei disegnatori nelle grotte di Lascaux è naturale immaginare che l’atto di creazione mirasse a stabilire un rapporto con alcuni aspetti determinanti della vita collettiva in quel momento. Non mi sono riferito a caso a un episodio delle origini, l’ho fatto perché spesso accade di ritenere che il proprio tempo detti legge e invece è necessario avere uno sguardo retrospettivo: temo che la sublime alterità di oggi, spesso purtroppo solo alterità irrisolta, sia indice di una secca. Dopo il dominio dell’effetto scenico che ha caratterizzato gli anni Novanta – e che sospetto nei prossimi decenni verrà ampiamente squalificato – l’andamento odierno, anche per la maggioranza dei giovani artisti, è un formalismo accentuato, ripiegato su sé stesso, poco disposto a confrontarsi davvero con le persone. Probabilmente siamo in una fase di maniera, se vogliamo usare un termine della critica storica dell’arte. Ciò dobbiamo vederlo e riconoscerlo, al fine di migliorare il rapporto tra l’artista, l’opera e gli altri. In altri termini, per far sì che l’arte sia tra le guide della società. Giusto precisare che questa problematica non è soltanto del fare artistico ma d’insieme: riguarda il sistema di valori.
A – L’orizzonte dell’oggetto estetico, tra realtà (la sua appartenenza) – e reale (il suo destino) potrebbe ri-tracciare, una sua seconda vita, attraverso le forma di ibridazione e della immaterialità proposte dalla tecnologia?
M T – Ogni medium che gli artisti hanno deciso essere adatto alla rappresentazione ha le sue caratteristiche tecniche, e quindi uno specifico spettro di possibilità e di limitazioni che viene determinandosi nel tempo e costantemente approfondito. Mi sembra che pur essendo ormai onnipresente nel nostro quotidiano, la tecnologia attuale non sia stata sperimentata davvero in ambito artistico: così la nostra previsione al riguardo oscilla tra gli opposti di una negazione intimorita (fantasmagoria, freddezza, eccesso di tecnicismo) e una positività sproporzionata che lascia presagire una “rivoluzione” nel modo di fare e ricevere l’arte. A livello storico qualcosa del genere è già accaduto con la fotografia e con il cinema. Niente andò a detrimento dei mezzi tradizionali ovvero la pittura e scultura. Io ritengo che lo stesso avverrà in questi anni. Gli artisti comprenderanno come servirsi della virtualità e dell’ibridazione al proprio meglio. Anche intendendo l’uso della tecnologia al fine di riprodurre opere già esistenti è bene testare ogni possibilità, a beneficio della conoscenza e dello studio. L’originale, con le sue specifiche materialità e deperibilità, nel luogo in cui è stato custodito o laddove è arrivato, resta tale: non perde né acquista niente da una sua rappresentazione ulteriore e perciò l’esperienza più completa resta sempre quella diretta.
A – L’Arte di relazione ha contribuito ad una ridefinizione dell’opera attraverso dispositivi specifici. Pensi che estendendo questa disposizione potremo anche assumerci una responsabilità creativa, prendendo come oggetto – sé stessi, cosi che “il sé” diventi il risultato dell’aver vissuto le esperienze, dell’aver guardato al fondo degli effetti scaturiti dalle proprie azioni…
M T – E’ possibile e auspicabile purché, come mi pare sia sotteso alla tua domanda, ciò avvenga fuori dal contesto dell’arte. Provo a spiegarmi meglio. L’arte relazionale insieme ad altre pratiche procede verso l’esterno, non verso l’interno. Su questo credo che talvolta, per superficialità, si siano create delle incomprensioni. I teorizzatori del “tutti siamo artisti”, i migliori di loro, non intendevano affermare che tutti possiamo praticare l’arte – questo sarebbe assurdo, nessuna attività può essere svolta senza l’adeguata preparazione e il costante esercizio , e l’esito sarebbe disastroso in termini di qualità – intendevano che ognuno di noi è in grado di avere un’attitudine artistica nella propria vita. Il che come bene sottolinei significa agire in modo creativo, assumersi la completa responsabilità, creare valore. Mi viene in mente la “cura autentica” di cui ha scritto Martin Heidegger. È un progetto per il mondo, e ci riguarda da protagonisti.
A – Quali le tue considerazioni sul Contemporaneo, in ordine ad una attenzione alla processualità, chiave nel tuo lavoro di critico d’arte e curatore?
M T – La processualità è un aspetto fondamentale sia per la mia ricerca curatoriale che per quella critica, secondo termini non identici ma certo relazionati. Nel primo caso la considero un possibile antidoto a un’indistizione dei valori estetici ed etici che trovo nel contesto della cultura, e per quanto ci riguarda nello specifico dell’arte contemporanea: da una parte essa permette un confronto dialogico reale con l’artista, dall’altra garantisce che l’opera può essere soltanto in quel luogo, in quel momento, e non in un’infinità di altre situazioni – appunto perché dal processo è scaturita per esigenza. Si tratta di una modalità molto diversa rispetto alla mostra “tematica”, in cui le opere sono parole o frasi per la costruzione del discorso curatoriale Il nucleo è il rispetto della ricerca artistica, ed arriviamo alla critica. Sto scrivendo un saggio che riguarda appunto questo, il ricorso a un’attitudine filologica per l’arte contemporanea. Conoscere umanamente gli artisti per ciò che fanno e pensano, frequentare il loro studio, essere presenti alle varie fasi creative, confrontarsi. La storia dell’arte passata la si ricostruisce attraverso i documenti, quella contemporanea, pur non potendo contare su una visione diacronica, si può riferire direttamente all’artista. La filologia al presente, che potrebbe sembrare un ossimoro, riguarda proprio questo, conoscere davvero e non in modo occasionale gli artisti di cui si intende dare una testimonianza critica. Ciò ha delle conseguenza specifiche, per esempio dei tempi di riflessione e di scrittura molto più lunghi. Direi però anche più veritieri e approfonditi. È un percorso che permette alla critica d’arte di riacquistare vigore e credibilità; di incidere nella definizione di una scala realistica di valori interni all’arte.