“La via della vacuità” è un breve saggio scritto come parte della performance “AscoltarTi” di Virginia Zanetti realizzata al Museo Villa Croce di Genova, all’interno del programma del festival Free.Q. Un’esperienza di complementareità tra opera testuale e relazionale, in riferimento all’ascolto e all’astrazione.
Proprio nell’istante in cui l’haiku termina, quest’antica forma poetica giapponese precisamente di tre versi e diciassette sillabe, e resta vibrando come una corda che abbia raggiunto la sua nota estrema, chi ha letto, accordando a tale movimento il senso indotto di sconvolgente sorpresa, comprende come l’elemento più piccolo possa contenere in sé l’universo.
il tetto si è bruciato
ora
posso vedere la luna
Davvero nel segno meno – lo si interpreti come si desidera: sottrazione, mancanza, assenza, nudità, silenzio… – si trovano verità inferiori rispetto a quando si aggrega? Se l’umanità nel suo complesso sente la necessità dell’atto creativo e delle espressioni formali dirette all’esterno, non sarà che la via interiore della vacuità – che è l’atto di accettazione totale – sta come corrispettivo necessario di equilibrio? “La forma non è distinta dal vuoto, il vuoto non è distinto dalla forma; la forma è proprio tale vuoto, il vuoto è proprio tale forma.”2
Se nei termini occidentali la vacuità non riscontra comprensione tanto immediata e naturale – assai più frequenti ne sono state le distorsioni, nonostante la direzione indicata da Nietzsche – possiamo praticare come inizio possibile non l’inizio in sé ma i movimenti dialettici a più livelli, per paradossale che possa sembrare, a conferma della sua la presenza. Per prima ad avverarsi così è la natura, giocandoci il tiro della catastrofe o della scomparsa contro ogni supposta regolarità e senza indicare alcuna preferenza – entrambi i tipi di accadimento le sono uguali e indispensabili. Valutando la storia nei suoi caratteri generali a ogni impresa di creazione sempre ne corrisponde una distruttiva, se riteniamo importanti le tracce di quanto è stato, allo stesso modo potremmo valutare le risposte eliminatorie di quegli errori o caratteri superflui che proprio il fare aveva causato. Una qualsiasi giornata rivela senso solo se riconsiderata a posteriori in maniera sintetica, mentre nel farsi si da quale successione caotica e imprevedibile di attimi infinitesimali. A ben vedere gli sviluppi, nella nostra tradizione culturale vi sono tutti i fattori per legittimare, accanto all’ontologia dell’esistente, un pensiero che non solo principi da ma che mantenga come costante il nulla.
L’arte in quanto evidenza della creazione, a cui si aggiunge la componente materiale che manca al discorso, parrebbe l’azione più difficile da relazionare a un’idea simile, eppure persino essa si rivela un validissimo banco di prova. Il presupposto è che ogni espressione artistica, qualunque sia il medium a cui ricorre, ha al centro la propria alienazione; tutto ciò che realizzo e mostro non desidero che valga solo in sé, al pari di un qualsiasi oggetto compiuto, ma che piuttosto rimandi a una presenza non presente: la natura intima dell’opera è nell’evocazione dell’alterità che essa non giunge ad essere. Diversamente, se essa fosse conclusa e non perfettibile, ne conseguirebbe il termine dell’interpretazione e quindi dell’arte intera. A tale dimensione attiene la vexata questio della differenza tra il figurativo e l’astratto, massimizzando le due parole-categorie con tutti i rischi del caso. La distanza tra esse non è segnata dall’approccio mimetico della prima né da quello iconoclasta della seconda, contro ogni lirismo dell’io si comprende che a distinguerle è il grado di oggettività.
Qualsiasi dichiarazione più è composta e più porta impressi i segni d’identità di chi dichiara – appunto la sua soggettività – invece la riduzione ai termini essenziali mira a disciogliere tale rivelazione a favore di una condivisione universale dei segni. Punto, linea, superficie, sono i mattoni della costruzione logica della realtà e la loro combinazione l’inesauribile varietà di conformazione. Si tratta di suoni che anticipano il discorso, della natura del mondo prima che esso sia nato; questa rinuncia alla costruzione determinata pur di non cadere nell’equivoco dell’espressione, paga la propria essenzialità con una vita breve, a meno di non rinnegarsi nella ripetizione di motivi stabili divenendo decorazione. Perciò la potenza dell’astrazione oltre i risultati così effimeri, i quali non si prestano se non a una sola visione – mentre un quadro figurativo per moto inverso più lo si guarda meno lo si riconosce – sta nella traccia di un orizzonte possibile, nel farsi impulso di nuovi inizi. Astrarre equivale a testimoniare che può sempre esserci un’altra origine, e che dunque l’eliminazione delle apparenze riconoscibili non serve a fine apologetico dell’inesistenza ma per esplicitare l’opportunità di una diversa costruzione oltre la discrezionalità di quanto già c’è. Certo, come quasi sempre avviene in arte, si tratta di un invito ai limiti dell’infattibile perché tale ripensamento necessiterebbe di una reale rivoluzione e a livello del linguaggio – «Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo.» – e a livello di storia con un’altra un’intera epoca di umanità. Ma la mancata realizzazione piuttosto che limitare diventa punto di forza, poiché se questa diversa origine avvenisse poi diverrebbe convenzione. Appunto qui, in un’esperienza che si potenzia e gode del non esistere, si svela il nulla che sorregge, che deve sorreggere, la nostra coscienza occidentale. “La pienezza della storia è possibile unicamente nello spazio vuoto e popolato al tempo stesso di tutte quelle parole senza linguaggio che fanno sentire a chi porge l’orecchio un rumore sordo sotto la storia, il mormorio ostinato di un linguaggio che parlerebbe da solo, senza soggetto parlante e senza interlocutore, schiacciato su se stesso, stretto alla gola che sprofonda ancora prima di aver raggiunto qualsiasi formulazione e che torna senza strepito al silenzio di cui non si è mai liberato.”
Affioriamo di nuovo alla vita, alternanza complementare e inevitabile di pieni e di vuoti. Il dire è l’atto generatore della realtà però sempre errato se non in quello che non è riuscito a significare, mentre la sua giustezza in fuga viene compresa – o meglio immaginata – dall’atto non generatore dell’ascolto. Solo la distorsione della nostra attuale situazione, tendenzialmente in tutto il mondo, ha sbilanciato l’equilibrio; la ricerca forsennata e incosciente del mostrarsi in ogni momento attraverso ogni canale, rifiutando come una vergogna il silenzio e l’invisibilità, non corrisponde alla libertà ma al processo odierno con cui il potere, camuffandosi nelle forma artificiale della disponibilità, soggioga tutti. Serve coscienza per accorgersi del sistema a cui si è sottomessi e per liberarsi dai timori condizionanti, nessuna facile formula esteriore in questo può davvero servire. Lo strumento per sentire la lezione giusta, quella che concentra su di sé invece di distogliere verso il resto, dopo tanto dire è proprio l’ascolto. Chi vuole sa concedersi anche ciò: creare le condizioni per una discesa nel profondo, fino a raggiungere il lago calmo della tranquillità e della saggezza, là dove l’io non ancora sconvolto dalle cause apparenti specchia innanzitutto sé sulla superficie delle acque, e solo dopo conosce il mondo.
“Non una parola, appena un mormorio, appena un brivido, meno che il silenzio, meno che l’abisso del vuoto; la pienezza del vuoto; qualche cosa che non è possibile far tacere perché occupa tutto lo spazio, l’interrotto, l’incessante.”
Matteo Innocenti