Tra i modi possibili di guardare alla ricerca di un artista vi è l’attenzione posta sul rapporto di conoscenza e di pratica “con” le materie, entro una tendenza progressiva all’accordo tra valori espressivi e qualità fisiche col fine di un avvicinamento alla verità – certo una verità relativa, altro non potrebbe darsi, ma comunque condivisibile.
La storia dell’arte ce ne tramanda esempi vivissimi, talvolta persino con note di tragedia. Tra le tante vicende e biografie a disposizione mi concedo un unico esempio che sia rappresentativo, per eccesso, di molti altri: un gigante il cui nome è Michelangelo, e tale concessione mi è permessa, ai fini del discorso, per la vicinanza rispetto a dove ci troviamo; poiché le cave di Carrara furono per lui, in molti significati, fondamentali. Conosciamo bene quanto il Buonarrotti riflettesse sulla scultura in correlazione al marmo come “quella che si fa per per forza di levare”, e in che modo tale pensiero divenisse in età avanzata delusione atroce per lo spirituale perfetto che l’arte, attraverso la materia, non riesce a raggiungere, come ben inquadrò Georg Simmel nel suo celebre saggio dedicato all’artista fiorentino “Nessuno come Michelangelo aveva fatto tanto per chiudere la vita nella forma terrestremente visibile dell’arte, perché essa trovasse in sé la propria soluzione […] ma gli divenne terribilmente chiaro che i limiti non avevano fine.” Si trattò allora, e assai si è ripetuto in altri casi, di una lotta ingaggiata con le possibilità e i condizionamenti dei materiali, rispetto al nostro inappagabile desiderio di assoluto – che ugualmente accade in pittura, architettura, poesia ecc.
Una breve digressione che conduce istantaneamente al nostro centro: Nunzio è tra i pochi artisti del presente in grado di equilibrare le tensioni conflittuali con naturalezza, all’interno di ogni fase – i gessi, i piombi, le ruggini, i legni – e si potrebbe dire nelle singole opere dato che ciascuna è caratterizzata da elementi di variazione, benché minimi, che la rendono una storia diversa. Per meglio dire, conviene osservare due livelli distinti: se la dinamica di continuo superamento viene espressa dall’intero percorso artistico che muta d’apparenza nel ricorso a materie diverse in periodi diversi, la singolarità delle fasi e delle opere fanno emergere una spontaneità e una distensione riferibili a una visione attuale, e possibile, del classico.
Quale specifico intervento opera Nunzio sui materiali, per arrivare a una placida, seppur misteriosa, compostezza? Già nell’esordio con la serie dei gessi, all’inizio degli anni ottanta, si poteva rintracciare la modalità che poi sarebbe divenuta costante. Le superfici scabre derivate dall’immediatezza compositiva – per i tempi di modellazione e di asciugatura del gesso stesso – venivano trasfigurate fino a raggiungere una resa “atmosferica” tramite la pittura ad acquerello – luce in relazione all’ambiente. Ne risultavano sculture letteralmente di superficie, sostenute dalle pareti e concorrenti a impressioni mutevoli; ciò che l’artista stesso ha definito una bidimensionalità apparente, come se qualcosa venisse sottratto alla realtà delle cose. Mutate le forme e la tecnica è ciò che vale anche per la combustione dei legni, fase varia ed estesa negli anni. La quercia o il rovere, che sono di per sé legni resistenti, prima vengono tagliati a lastre e poi combusti nel primo strato fino ad ottenere la scomparsa della tessitura, in modo da rendere ancora la superficie, liberata da ogni “superfluo”, una conduttrice di luce. Pur nel rispetto delle differenze possiamo per analogia sostanziale estendere tale attitudine anche al piombo, alle ruggini e ai disegni: abbiamo sempre una dinamica che procede in contemporanea per sottrazione e per addizione, nella trasfigurazione sensibile degli elementi di partenza.
Così i riferimenti alle qualità insite nella materia e al loro trattamento esteriore; ma il grande legno combusto, installato nel 1993 in occasione del Festival dei Due Mondi in Santa Maria della Manna d’Oro a Spoleto e adesso in Madonna delle Lacrime a Carrara, per il suo carattere emblematico ci permette di estendere la riflessione fino a comprendere l’altro movimento essenziale in Nunzio, quello della materia verso la percezione e lo spazio. In Diluvio il nero che di normalità assorbe luminescenze e colori, assume anche una potenza riflettente, acuita dall’aggiunta di pigmento blu profondo, mentre descrivendo un andamento concavo/convesso (in base al nostro punto d’osservazione) le varie lastre si protendono in verso di verticalità. Un ricorso poetico caro all’artista, le connotazioni gnoseologiche che Dante Alighieri associa ai contrari, prossimi, del “velare” e del “disvelare”, ci guida verso una contraddizione feconda, da cui possiamo desumere almeno due declinazioni.
La prima è lo spazio della sensibilità. L’installazione tramite l’effetto visivo che suscita a distanze differenti assume il valore di soglia – da lontano domina la massa compatta, monolitica dei neri, mentre avvicinandoci scorgiamo le distanze tra parte e parte, esaltate dall’evanescenza dell’oltremare. Il significato profondo della soglia sta nell’induzione di passaggi attraverso di sé: essa è zona di apertura e di chiusura insieme, ciò che viene preceduto da un percorso ed ugualmente da un percorso viene seguito. Quindi l’opera ha la forza di attrarci fino al suo limite, e da lì rimanda – appunto per via di sensibilità – a una dimensione ulteriore. Vedere e allo stesso momento non vedere del tutto: sebbene le scelte formali di Nunzio derivino da riflessioni concrete e poco, se non nulla, egli conceda allo spirituale – per la sua intima coerenza rispettata dall’inizio alla fine – ciò non esclude che il trattamento e la composizione sapiente della materia rendano l’opera simile a uno stato potenziale. Anzi è proprio in tale modo che si evita il rischio della pura aderenza formale, di una scultura che dice soltanto quello che dice: il legno che significa solo bruciatura, il piombo impressione, la ruggine ossidazione. Un aspetto poco approfondito di Nunzio, ma rivelatorio della capacità di sfuggire al realistico per via di evocazione, è l’uso dei nomi. I titoli delle sue opere non sono descrittivi di quanto si vede ma di quanto si sente, e da lì traggono la loro formidabile precisione: così, per esempio, il diluvio è la discesa dall’alto di acque fresche sulla terra riarsa, ovvero una possibilità di rinnovamento e di elevazione.
Arriviamo alla seconda declinazione, lo spazio fisico. Per una coincidenza non casuale in buona parte della documentazione fotografica delle sculture di Nunzio ritorna un pavimento a quadrati bianchi e neri; una sorta di scansione, che puntualizza l’importanza dei rapporti e delle misure degli ambienti circostanti. Fattore che certamente assume importanza equiparabile in luoghi connotati come può esserlo una ex chiesa. In Santa Maria della Manna d’Oro a Spoleto, rispettando la collocazione centrale del fonte battesimale, furono installate quattro grandi sculture seguendo la successione di nicchie lungo i lati della pianta ottagonale. Anche nella Madonna delle lacrime ritornano gli elementi caratteristici: il Diluvio, semicircolare, posto davanti all’abside mette in relazione concavità e convessità, il suo sviluppo in verticale – si noti a partire da un suolo a decorazione geometrica – descrive un puro moto ascensionale in accordo all’architettura sacra. Con la stessa precisione della loro struttura interna, le sculture contribuiscono in modo fondamentale anche alla costruzione di un discorso diretto all’esterno: l’opera in loco crea un nuovo spazio, esistente, percepibile e interpretabile fino al termine della sua permanenza.
Matteo Innocenti