Marina Arienzale con l’installazione In Germania il pane non esiste costruisce un racconto collettivo di Roccavivara in una duplice modalità.
Una traccia audio che raccoglie i dialoghi avuti con gli abitanti del paese nel corso dei giorni di residenza – insieme di memorie, impressioni, valutazioni sulla situazione presente e immaginazioni sul futuro – viene riprodotta in cuffia, tramite un player a energia solare, dal supporto del binocolo panoramico presso la terrazza belvedere: una storia orale e spontanea, rappresentativa, che le persone residenti, di passaggio o turisti, potranno sempre ascoltare nel tempo.
Ai due lati del parapetto, nel medesimo luogo, un dittico fotografico “blocca” in immagine l’attualità del borgo nella fase di permanenza dell’artista: uno scatto della piazza animata dai flussi di gente durante un giorno di ricorrenza (16 agosto, festa di San Rocco) e uno scatto dei giovani immigrati – provenienti da vari paesi tra cui Mali, Nigeria, Guinea, Pakistan – che abitano per periodi variabili il centro di accoglienza di Canneto. Entrambe le fotografie, per la cui realizzazione è stata richiesta in modo rispettivo la partecipazione di tutti i presenti, danno traccia delle dinamiche di coesione e separazione in atto, invitando inoltre a una riflessione sulla questione demografica per gli anni a venire.
Matteo Innocenti: Nel corso del tempo hai sviluppato la tua ricerca attraverso vari modi d’espressione, tra cui la performance. Mi interessa partire da qui, probabilmente perché ci siamo conosciuti collaborando proprio ad un’azione, Departure; quando e come hai iniziato a interessarti al corpo, alla potenzialità artistica della sua presenza e delle sue azioni?
Marina Arienzale: Nel corso degli anni, dagli studi in Accademia in poi, ho seguito vari seminari legati alla voce, al movimento, alla percezione del corpo. Sentivo che era qualcosa di interessante per me ma allo stesso tempo ero abbastanza inconsapevole. Un giorno mi trovavo vicino Fes (Marocco) e sono andata in un Hammam pubblico, prima di entrare un ragazzo mi ha spiegato che avrei dovuto portare con me una serie di cose per lavarmi. Una volta dentro non sapevo bene cosa dovessi fare. Notavo le donne intorno, avevano una profonda confidenza con il loro corpo e anche le une verso le altre. Sono rimasta lì ad osservare. Una signora mi è venuta incontro, ha iniziato a parlarmi ma non capivo allora mi ha letteralmente afferrata, mi ha fatta sedere per terra ed ha iniziato a lavarmi. Mi lavava sotto le ascelle, la schiena, le braccia, i capelli. In quel momento il mio corpo ha rivelato la sua memoria con una forza incredibile, ho avuto la sensazione di avere cinque anni e di essere con mia madre che mi lavava nella vasca da bagno della vecchia casa. Una sensazione di benessere e in un certo senso di abbandono delle difese. In quell’istante ho capito quanto può essere potente un’azione veicolata attraverso il corpo, alla relazione profonda che può creare e al processo di trasformazione che può mettere in atto. Così anni dopo, ho deciso di realizzare Resistenze, la mia prima performance. Non so rispondere riguardo alla potenzialità “artistica” del corpo, quello che posso dire è che le azioni realizzate attraverso di esso mi portano ad una presa di posizione forte, politica, essere qui ora. La performance avviene ed è un atto reale.
MI: Puoi raccontarmi di Resistenze, in che modo l’ha preparata e realizzata?
MA: Resistenze è stata preparata durante una residenza di una settimana, per il progetto FOAP (a cura di CCC e Fabbrica Europa), l’azione si svolgeva all’interno di un cortile dove i carcerati passavano la loro ora d’aria. Il pubblico era invitato a lavarmi.
La ricerca del luogo è stata fondamentale e una volta trovato, essendo un posto rimasto chiuso da molti anni, l’ho pulito per giorni. Questa è stata la mia principale attività per la preparazione della performance. Ho avuto poi l’aiuto prezioso della danzatrice e coreografa Cristina Caprioli che ha deciso di lavorare con me, nonché di altri amici, fondamentali per questa esperienza.
MI: Nella tua ricerca è centrale anche la fotografia; mi piacerebbe sapere come ti sei avvicinata a essa, in riferimento a qualche progetto che hai sviluppato nel tempo.
MA: La prima volta che ho avuto in mano una reflex avevo diciannove anni ed ero all’Accademia di Belle Arti, studiavo pittura. Prima di allora non avevo mai sentito parlare di otturatore o diaframmi. Mia madre mi scattava delle foto quando ero piccola ma a parte questo, direi che non ho un background fotografico. Forse anche per questo motivo sono stata affascinata dalla fotografia e ho iniziato ad approfondirla. Al contrario ho sempre disegnato e costruito cose sin da bambina e quando ho visto una vera macchina fotografica, dove si poteva decidere quanta luce far entrare ecc., mi è sembrato che si trattasse di un gioco bellissimo. Per non parlare della camera oscura, dove inizialmente non avevo idea di quello che stessi facendo. Dopo gli studi in Accademia e un periodo passato a Barcellona, ho deciso di rientrare in Italia per iscrivermi ad una scuola di fotografia. In quel contesto ho iniziato a rapportarmi con fotografi, photoeditor, giornalisti, artisti. Ho iniziato a vedere la fotografia anche come una possibilità di lavoro e una fonte di guadagno. In quel periodo un mio amico mi propose di unirci in un collettivo, e così fondammo “Groomingphoto”. Da quel momento il mio approccio alla fotografia è cambiato, ho iniziato a realizzare progetti a lungo termine, vicini al fotogiornalismo. Questo mi ha portato anche ad approcciare la fase di ricerca in modo più completo. In un primo momento non riuscivo bene a capire come far convivere questo tipo di fotografia con il resto del mio lavoro, ma poi con il tempo mi sono resa conto che in realtà ne era un aspetto fondamentale.
Non per forza la fotografia come fine ultimo ma come strumento per entrare in contatto o raccogliere informazioni. La foto mi è utile in modi diversi, anche in Resistenze per esempio l’ho utilizzata, fotografando i disegni dentro le celle e trasportandoli poi sul mio corpo come tatuaggi. Oppure al contrario, alcune volte il lavoro si è sviluppato al modo del reportage, come nel lavoro CASE DEL POP (realizzato insieme a Matteo Cesari). In questo caso la nostra ricerca è durata diversi anni, portandoci ad avere una documentazione importante ma allo stesso tempo ci ha fatto stringere relazioni che hanno fatto sì che il lavoro si sviluppasse anche in altro senso.
MI: Sia l’aspetto relazionale che lo strumento fotografico si sono confermati essenziali anche nella tua esperienza di residenza. Vorrei ora concentrarmi su alcuni aspetti della tua installazione per Roccavivara, In Germania il pane non esiste.
Andiamo agli inizi: il tuo arrivo in paese, le tue impressioni, i dialoghi che hai con le persone locali e che poi si riveleranno essenziali per l’intero processo.
MA: Diciamo che inizialmente quando sono arrivata a Roccavivara, non sapevo cosa aspettarmi. Il mio arrivo è coinciso con alcune feste del paese e in quel momento il borgo era vivo e pieno di persone; la cosa che mi ha colpita di più è stata vedere tutte questa gente che rientrava anche da paesi europei o extraeuropei per trascorrere lì alcune giornate di festa. Conoscevo già in parte questo aspetto del Molise, in quanto per metà la mia famiglia proviene da Sepino e tutti i fratelli di mio nonno sono emigrati (il Molise è la regione con più iscritti all’AIRE), però la cosa che mi ha sempre affascinata sin da piccola era il forte attaccamento con la comunità di provenienza. Cosa che ho ritrovato forte a Roccavivara. Specialmente passati i giorni festivi, quando il paese ha iniziato a svuotarsi, la mia presenza da straniera si faceva notare e i Rocchesi ne erano incuriositi, così sono iniziati i primi approcci e da lì è stato un crescendo di pranzi, cene e con questi ovviamente sono arrivati i racconti sulla storia e sulle storie del paese.
MI: Quando e come hai capito che i dialoghi, registrati, sarebbero diventati parte dell’opera? E quali criteri hai seguito nella selezione degli estratti?
MA: Ho percepito che le persone avevano molta voglia di raccontare, spesso parlavano di eventi storici che hanno trasformato non solo il Molise ma anche l’Italia come nazione. Avevo la percezione che fosse necessario salvaguardare tutto questo in quanto memoria storica, così ho iniziato a registrare. Nel montaggio ho deciso di seguire il racconto, la mia non era un’intervista ma solo un ascolto attento. Spesso nel mio lavoro parto dal “particolare” per arrivare a qualcosa che possa essere percepito a un livello più “universale”. In questo caso, ho trovato una concentrazione così vasta di storie, da avere la sensazione che attraverso una comunità di circa seicento abitanti si potesse arrivare a percepire quali sono le problematiche, le paure, i sogni e le aspirazioni di molte persone che vivono questa epoca in Italia.
MI: Quando ho descritto l’installazione, il giorno della presentazione, ho fatto riferimento alla componente di auto-rappresentazione. Ciò vale per l’audio, perché il racconto è fatto dalla voce delle persone locali, e in modo uguale per le due fotografie di “comunità” che hai scattato, invitando gli abitanti di Roccavivara e i giovani immigrati del centro di Canneto a farsi ritrarre. Ma andiamo con ordine, anche in questo caso vorrei chiederti come sei arrivata a prendere questa scelta relativa alle fotografie e come hai proceduto.
MA: Come ho detto prima, la cosa che mi aveva colpito molto era il “senso di appartenenza”: tutte queste persone che tornano da differenti parti del mondo per ritrovarsi nei giorni di festa, dopo di che il paese ritorna ad essere quasi vuoto. Per questo, ho scattato la foto nel paese il giorno di San Rocco. La scelta è stata quella di essere un osservatore esterno, di ritrarre le comunità che ho trovato all’interno di uno specifico territorio, così come era in quel momento. Non volevo dare un giudizio ma solo rendere visibilità e voce a ciò che avevo trovato, con occhi diversi da chi lo vive o ne è coinvolto a livello sentimentale. Alcune volte è necessario osservarsi attraverso gli occhi degli altri per scoprire nuove cose su noi stessi.
Così attraverso una chiamata alla cittadinanza, siamo riusciti a scattare la foto del paese. Con i ragazzi del centro, invece, visto che non erano mai saliti in paese in quei giorni, ho deciso di scendere io da loro.
MI: Io credo che le due fotografie diano testimonianza libera dei processi di vicinanza e lontananza, di aggregazione e sfaldamento, che esistono in queste comunità come in ogni altra. In questo senso mi pare, e lo trovo giusto, che non ci sia una presa di posizione da parte tua. Che reazioni hai avvertito nel paese, nel confronto con le due immagini?
MA: Le reazioni sono state molteplici, molti non capivano perché avessi deciso di realizzare una fotografia con i ragazzi del centro e perché l’avessi installata di fronte a quella scattata in paese. Alcune persone invece mi hanno ringraziato, altri non erano per niente d’accordo con l’operazione. La cosa importante è che attraverso questi due scatti si è aperto un dialogo. È stato bello vedere che si sono avviate delle discussioni e dei confronti. Qualcuno mi ha detto che in Germania il pane esiste, ma non ho fatto in tempo a rispondere e spiegare il motivo della mia scelta per il titolo perché si era già accesa una discussione.
MI: Trovo molto interessante la tua scelta di confrontarti con uno spazio del paese molto bello quanto poco vissuto, il Belvedere. Come hai scelto questo luogo? Anche in relazione al modo in cui hai installato: l’audio in corrispondenza del binocolo panoramico, le fotografie stampate in vetro, a tutti gli effetti due oggetti scultorei, una frontale all’altra poggiate sul parapetto.
MA: Considero lo spazio un elemento fondamentale. Il Belvedere in questo caso rappresenta a livello simbolico e non solo, uno spazio vuoto, dove poter intervenire. L’istallazione, composta dai tre elementi, forma un triangolo. La persona che lo attraversa si trova in mezzo alle due foto che si fanno da specchio e andando avanti, il binocolo con l’audio. Con il binocolo si può guardare in lontananza e con le cuffie si può ascoltare quella che ormai è già una memoria storica. Mi interessa questo movimento circolare e spaziale all’interno del mio lavoro. Dopo la presentazione dell’opera, alcune persone avevano proposto di apparecchiare per fare una cena di paese lì, sul Belvedere. Mi piacerebbe sapere se verrà fatta veramente e se questo luogo vivrà delle dinamiche nuove.
MI: Infine ti chiedo una riflessione su questa tua esperienza di residenza.
MA: La cosa bella di questa residenza è che ti pone limiti ma allo stesso tempo ti offre molte possibilità. Essere catapultati in una comunità e avere il ruolo “dell’artista”, essere stata presentata come tale, ti fa sentire una grande responsabilità nei confronti di tutte le persone che ti accolgono e che in qualche modo si aspettano qualcosa da te. Penso che questo tipo di residenza abbia la forza di innescare nuove dinamiche all’interno della comunità e anche in chi vi partecipa come artista. Roccavivara mi ha insegnato molto durante questo mese e devo dire che alla fine mi è dispiaciuto andarmene.