MI: Caro Marco, in attesa di iniziare a parlare del nostro progetto – è un po’ di tempo che non ci vediamo – ti chiedo prima di tutto come stai? Su che cosa ti stai concentrando?
MAM: Caro Matteo, in questo periodo mi trovo in Germania in una piccola cittadina sperduta nel mondo chiamata Bad Grund. È tutto molto surreale e lontano dal tempo. Sembra di vivere in una favola dei fratelli Grimm con una certa atmosfera malinconica e stregata. Per completare il quadro mi sono dato alla lettura di Hans Richter per ripassare alcune intuizioni Dada in relazione anche al vicino museo di Hannover (Sprengel Museum) dove si trova custodito tutto l’archivio di Kurt Schwitters. Ciò che stava a cuore a tutti questi artisti non era il fracasso, la contraddizione e la negazione in se stessi, quanto piuttosto l’interrogativo elementare: verso dove? Hugo Ball da filosofo, poeta, romanziere, cabarettista si scopre mistico ricercando il senso del non-senso interrogando Giovanni Climaco, Dionigi Areopagita e Simeone Stilita. La parola diventa suono onomatopeico per diventare preghiera fantastica. Un po’ quello che ha fatto Irma Blank che ho visto prima di partire per la Germania in una mostra romana. La parola perde di significato per diventare qualcosa di più forte: una linea di scrittura vivente che ha più a che fare con il suo respiro che con la semantica. Ti potrei rigirare la domanda: verso dove? Ovviamente in relazione al progetto che hai intenzione di propormi!
MI: Può darsi che questo periodo recente abbia davvero segnato in modo profondo la società nel suo complesso e i corsi individuali – all’ultimo riguardo direi che almeno abbiamo avuto un’occasione più evidente di interrogarci. Noi saremo gli stessi? e per ciò che qui ci riguarda, l’arte resterà identica? Non mi riferisco alla sostanza, sarebbe una nostra presunzione – e una distorsione prospettica al pari di molte altre che ci ingannano – pensare che quanto esiste da millenni muti per una serie di eventi, proprio adesso. Però credo che sia giusto interrogarsi sui modi attraverso cui la sostanza viene espressa e manifestata. Allora direi che molto può cambiare, e non per chissà quale ragione ideologica o morale, ma per una nostra esigenza che sta assai più in basso. Molto può cambiare perché ne abbiamo bisogno.
Per non sviare dal centro del nostro discorso, ti direi che a partire dal l’attualità corrente o una mostra ha delle necessità o sarebbe meglio attendere, evitare di alimentare una sovrapproduzione culturale che da anni ci stordisce, una maniera che in fin dei conti riguarda più le dinamiche e i ruoli della società che l’arte in sé.
Verso dove, quindi? Verso una regione sensibile, dove si avverta in modo forte la bellezza e la responsabilità di mostrarsi (il nostro volto, la nostra voce, le nostre parole, le nostre opere) agli altri.
MAM: Stavo riflettendo su quello che mi hai scritto. In un periodo come quello trascorso, travolto prima dalla fretta e poi da uno strano silenzio gravido di paura, l’educazione sentimentale verso l’arte è diventata ancora più intimamente legata al difficile compito del dialogo e del sapersi concedere del tempo per questo dialogo. Penso a Marc Augé e al suo Prendere tempo” Il nostro progetto parte appunto da un dialogo non forzato, spontaneo. Nasce da delle parole che vogliono trovare un approdo in un mondo visivo: dal testo al contesto. Il luogo/contesto però è fatto di vita, di vissuto, di persone che ci hanno messo fatica, studio, incazzature pur di realizzare un desiderio d’architettura. È comparso Augè perché mi hai proposto come luogo espositivo una portineria. Quasi un non- luogo, un luogo di passaggio che sfugge alla visione e al pensiero, insomma un luogo di servizio. È uno spazio della circolazione e della comunicazione. È un principio di relazione. Il luogo ovviamente già suggerisce un orientamento, delle attitudini e delle relazioni sia materiali che gestuali. Mi piacerebbe lavorare sull’empatia dello spazio, sull’empatia delle persone e sulla sostanza dei materiali: perché l’architettura non è solo un’astrazione concettuale bensì una pratica incarnata. Lo spazio architettonico si costruisce primariamente attraverso un’esperienza emotiva e multisensoriale.
MI: In qualche modo il percorso che stiamo facendo rinnova anche la mia percezione di questo spazio, è come tornare a vederlo diversamente; ciò mi piace molto, è il modo, credo, di sentire la sensibilità di un luogo.
Poiché ancora non sappiamo in modo definito che cosa faremo, il nostro dialogo diventa la traccia viva, in tempo reale, della definizione della mostra. Dopo il primo sopralluogo abbiamo parlato, hai iniziato a considerare (e cercare) alcuni materiali – in rapporto all’architettura della portineria e alla storia da cui deriva. Ieri sei ripartito per Milano, tornerai a Firenze tra qualche giorno. Che pensieri hai oggi… si delineano delle forme?
MAM: La forma che si sta delineando è quella del dialogo. Un dialogo tra me e te e un dialogo ideale tra chi ha progettato il luogo Oreste Poli e il figlio che lo vive. E ancora un piccolo viaggio attraverso la storia dei materiali e il loro comportamento. Mi viene in mente Lettera al padre di Kafka come possibilità di ripensare un rapporto tra generazioni ovviamente con un’altra accezione e Il sistema periodico dove Levi prende a pretesto un nome di un elemento della tavola periodica per raccontare della sua vita e dei suoi incontri. Da questo piccolo connubio penso possano nascere delle lettere scritte dai materiali stessi. Credo sia importante rileggere uno spazio relazionale per trasformarlo in spazio d’architettura. Lettere dall’architettura è un piccolo libro che mi ha suggerito la forma della lettera proprio per la sua forma condivisa e partecipata. Vi si legge appunto di come scriveva Le Corbusier a riguardo della città, come frutto di un lavoro per il quale “l’esterno è il risultato di un interno”. L’autore suggerisce ancora che interno può significare anche interiore. Il lavoro su Palazzo Poli e la sua portineria parte così da un dialogo. Non si cerca di stendere la teoria, ma si tende a far nascere l’opera dal dialogo e dalla relazione dei materiali. L’architetto come riportato sul sito di Palazzo Poli parla appunto del suo materiale prediletto: «Il cemento è un elemento versatile. Si presenta come una massa compatta e monolitica, ma essendo una “pietra liquida” può essere modellato nelle forme più svariate a seconda del progetto, in modo da adattarsi a qualsiasi tipo di struttura; questo materiale ha un grande potenziale espressivo, una forte plasticità che caratterizza i volumi, così gli edifici assumono un aspetto scultoreo, fino a diventare monumenti». Gli ingredienti del cemento trovano nella roccia in polvere il proprio principio attivo, occorre il carbonato di calcio che è il costituente principale del calcare e ancora una roccia contenente silicati per esempio l’argilla. Il tutto però occorre riconfigurarlo ad alte temperature per trovare dei nuovi composti di silicati di calcio. Insomma un mondo pulviscolare fatto di polvere e acqua. Poi se penso alla carta ritrovo una seconda volta il carbonato di calcio che si sposa con la cellulosa. La sostanza delle cose diventa una storia incredibile di materiali di cui è fatto il Palazzo Poli, la stessa città di Firenze e il mondo stesso. Il progetto nasce così da un rapporto empatico con l’ambiente, con una memoria storica d’attitudine brutalista, dai ricordi privati, dagli indizi materiali e dalla percezione corporea. Le lettere vengono così scritte e delineate dai materiali stessi che prendono ispirazione dal luogo, dall’architettura e dai tagli di luce che ne conferiscono un’identità forte. E visto che abbiamo iniziato a rivedere insieme “Amici miei”, le nostre parole non vogliono essere una supercazzola, bensì riprendere un’atmosfera simpatetico empatica tra le parti e il loro contesto. Comunque il termine cippalippa lo trovo geniale!
MI: Leggendo il tuo testo, e a seguito di questi giorni di allestimento (dalla tua ultima risposta), voglio tornare a condividere con te un pensiero. L’importanza di costruire insieme un progetto riflettendo sulla natura del luogo, sulla sua storia, sui suoi materiali, insomma su una serie di componenti che gli danno identità. C’è molta differenza tra questa scelta, e quella di collocare delle opere in uno spazio cercando l’effetto estetico migliore. Mi rendo conto che La Portineria sta andando nella prima direzione e che, passando il tempo, trova lì la sua ragione d’essere. Anche per questo apprezzo molto la sensibilità (e l’abilità) con cui hai preso in considerazione e interpretato i tanti elementi di una lunga storia – una storia che dalle origini del palazzo arriva fino a noi, ad ora. Mi piace questa sorta di gradazione, per cui dal primo ambiente accogliente e rigoroso, centrato sul grigio del cemento e della scultura nebulizzata, e sul blu della parete dipinta, si passa a una sala quasi domestica. Adesso saranno le persone, tra cui certamente anche gli abitanti del palazzo, a fare esperienza della mostra. Lascio a te una conclusione per il nostro dialogo.
MAM: Per prima cosa ti devo ringraziare dell’invito e dell’esperienza che abbiamo condiviso insieme e sono grato pure a Zoya per l’ospitalità e i suoi buonissimi piatti iraniani. Il nostro allestimento mette a fuoco lo spazio dell’architettura trasformandolo, in punta di piedi, attraverso piccoli interventi. Abbiamo letto questo spazio attraverso un percorso argomentativo che a un certo punto si è aperto a prendere in considerazione il luogo e i suoi demoni, l’architettura e gli architetti (attraverso la loro sorte), l’amore per i colori dell’architettura, la necessità di pensare all’eredità di una vita di progetti. La portineria di palazzo Poli si trasforma con queste opere/lettere a parete (scritte dai soli materiali della carta e del cemento) in un luogo più contemplativo: le opere si integrano perfettamente nella parete come a riprendere il ritmo dato dalle finestre. Il colore blu navy dato su una parete e scelto dal figlio dell’architetto, Mario, diventa una declinazione di questo dialogo visto che il padre Oreste ci ha regalato il colore del suo materiale preferito grigio cemento (che ritroviamo nelle lettere). Completa l’installazione nella portineria, una piccola scultura cruda e bagnata, plasmata con tutti i materiali nella stanza (a parte i colori); la scultura sembra ricordare delle stoviglie sovrapposte quasi a formare una piccola architettura poggiata su una base preesistente. Il fatto che debba rimanere umida serve a sprigionare gli odori dei materiali stessi con una piccola aggiunta di un aroma a sorpresa. La dimensione intima e casalinga è sottolineata ancora una volta nel corridoio e nell’atrio del palazzo: una scultura aerea a soffitto ricorda un compasso dove alle due estremità troviamo una matita – lapis detta alla toscana – e una gomma. Disegna cancellando e cancella disegnando nuove possibilità di lettura dello spazio arredato per l’occasione con dei mobili di Oreste. Saluto la mostra con un piccolo velluto a parete scritto con della polvere di inchiostro calligrafico. Tutto questo pulviscolo non è altro che una tassonomia di ingredienti che dosati sapientemente hanno la possibilità continua di trasformarsi in parola o in luogo architettonico. Ho trovato una poesia che si intitola Bianco di Giancarlo Consonni (architetto e poeta) che calza a pennello per la nostra mostra: «Nuvole e spuma. Il cielo e il mare si parlano a colpi di bianco.» Non credo si possa aggiungere più nulla.
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