Caro Enrico,
ci troviamo nuovamente a dialogare in forma scritta – anche se il dialogo verbale è sempre continuato nel tempo. La costruzione di questo nuovo progetto avviene in una fase di grande differenza rispetto al passato, che, io credo, ci indica anche la necessità di ripensare davvero molti aspetti dell’arte. Sono sempre più convinto di come oggi ci sia il bisogno di parlare del mondo anche attraverso le opere, lasciando alla dimensione di mera interrogazione linguistica – l’arte che pensa all’arte – un ruolo più marginale. Che cosa ne pensi? Dove si trova ora la tua ricerca?
Caro Matteo,
che bello ritrovarsi in questo nuovo dialogo fisico e mentale! Anche se un certo Socrate non condividerebbe, non si può negare che verba volant! Condivido i tuoi presupposti… la fase in cui ci troviamo, ha in sé sostanziali differenze rispetto al passato. Dipende poi a quale passato ci riferiamo. Pre-Covid? Pre-invasione Russa dell’Ucraina? Pre-Twin Towers? Pre-anni 2000? Io credo, in linea generale, come suggerito da Morris Weitz, che non si possa definire ciò che non può essere definito. Credo sia sempre difficile, limitativo e controproducente, delimitare i confini dell’arte. Negli anni, grazie forse al mio percorso, sempre in essere, nello spazio di Base, grazie ai miei numerosi viaggi, alla mia curiosità onnivora e al mio anarchismo latente, mi sono reso conto che le opere più rilevanti, non lo sono in virtù del loro appartenere o meno a specifiche categorie. L’arte che pensa all’arte, se spontanea e generatrice di riflessioni incisive, eviterei di escluderla a priori e allo stesso tempo, l’arte che parla al mondo, se intende farlo per circostanza e non per sostanza, eviterei di includerla. Con questo non voglio negare che, in linea di massima, non sia sicuramente propenso da sempre verso una certa direzione, ma gli assolutismi, soprattutto di questi tempi, preferirei evitare di fomentarli. Per come la vedo io, l’artista deve operare sentendosi responsabile e all’altezza delle proprie azioni. Se il suo operare muove da questi presupposti, l’andare a definire il suo operato, anche se in buona fede, rischia di divenire speculativo. Lasciare un ruolo più marginale all’interrogazione linguistica? Forse sì, almeno per buon senso collettivo, ma con cautela. Fondamentale è l’interrogazione di per sé. Sono arrivato a fare cose, chiamate da altri arte, interrogandomi prima sulla mia esistenza, poi sulla mia evoluzione, in seguito sulla posterità e oggi, come già sai, sulle origini… di tutti noi. La mia ricerca si trova sempre dove mi trovo io… nel mezzo del cammino tra esistenza ed eternità. L’arte e la vita, in certe esistenze, sono una cosa sola non credi? Che cos’è che ancora ti emoziona? Qual è l’ultima opera che ti ha cambiato la vita?
MI: Sì Enrico, vorrei precisare con qualche frase il mio pensiero iniziale.
La necessità che avverto e che ritengo sia in certa misura condivisibile, il parlare della condizione quotidiana contemporanea e della sua complessità anche attraverso l’arte, riguarda per me la capacità di porre delle domande, non l’ambito delle definizioni (a ogni livello, sia definire cosa sta accadendo o definire che cosa sia l’arte); perché concordo con te che risposte definitive non siano possibili né necessarie – fatto che però non ci esime dal porci la questione, in quanto essa è generatrice di riflessioni.
L’arte mi emoziona da sempre e continuerà a farlo, nelle sue varie espressioni. Per citare un incontro importante avvenuto non molto tempo fa, scelgo un libro, Guerra e Guerra dello scrittore ungherese László Krasznahorkai. La prima pubblicazione è del 1999 (nel passaggio tra millenni) ma in Italia è uscito solo nel 2020. Un bizzarro archivista, in un piccolo paese dell’Ungheria, scopre un manoscritto altrettanto strano: di base narra di quattro personaggi che attraversano varie epoche storiche, ma nella sostanza la struttura narrativa è continuamente variabile, quasi informe, e a ciò si aggiunge il rapporto con il libro vero che stiamo leggendo. Il protagonista, Korin, si è convinto che questo manoscritto abbia un’importanza inestimabile, esso salverà il mondo; così decide di ricopiarlo al computer, a New York, perché la città statunitense è per lui il centro del mondo. Ecco, questa tensione che attraversa il romanzo, in bilico tra follia e perfezione, l’ho trovata formidabile. E mi ha sorpreso scoprire che nella parte finale, in modo misterioso, diventano centrali gli Igloo di Mario Merz. E in effetti avrei potuto citare anche una delle sculture di Merz, ovvero la sua interrogazione, inesauribile, su che cosa sia vivere, abitare, costruire. Tu di quali incontri mi racconti?
EV: Direi incontri telepatici! Ho letto questo tuo messaggio solo ora ma vedendo l’orario in cui l’hai inviato, sembra incredibile, ma proprio a quell’ora io ero passato al mio studio per innaffiare le piante e dopo averlo fatto mi sono seduto e mi sono messo ad osservare quel lavoro che da tempo si irradia sul pavimento e, poco dopo, mi è venuto in mente….Mario Merz! Se non è telepatia questa. Forse non è un caso o forse lo è, ma sicuramente quando stamani mi è apparso il suo nome ho avuto come un sussulto… come se, dopo aver scavato e scavato, fossi arrivato a sfiorare con mano uno strato archetipico, a cui lui e già altri prima di me, anche se in modi differenti, erano arrivati. Non so se è solo una mia sensazione, ma è come se certi risultati del pensiero, scaturiti dalle ricerche di tutti gli artisti importanti della storia dell’arte, non siano confluiti nella maniera corretta non solo nella Storia con la S maiuscola, ma nemmeno nella memoria collettiva e quindi è come se fosse ancora necessario ricucire certi strappi ed esplorare certe fratture. Non conoscevo questo libro di cui mi parli ma il tema di cui tratta mi incuriosisce molto! Domani mi metterò a cercarlo! Come sai, anche se certi assolutismi mi spaventano, da tempo sono in cerca di libri, documenti e testi “assoluti” da cui poter attingere per riuscire a trovare inedite risposte personali e tentare di farmi tramite di nuove domande ancora inespresse. Che cosa ci ha resi quelli che siamo? Quali processi piccoli e grandi hanno portato la civiltà umana ad essere quella che è oggi? Alla luce dei disastrosi avvenimenti degli ultimi due anni, abbiamo sbagliato tutto o dobbiamo solo aggiustare il tiro? Sono tornato con la mente a quando abbiamo abbandonato il nostro essere erranti e ci siamo resi schiavi delle colture. È stato in quel momento che abbiamo intrapreso la strada sbagliata? Eravamo “nel” mondo spensierati e ora ci ritroviamo “al” mondo pensierosi! L’Homo erectus ha vissuto su questa Terra per 2.000.000 di anni… noi Sapiens riusciremo a fare altrettanto?
MI: Questa riflessione apre molte questioni, le scelte che facciamo in quanto specie (e dunque come plasmiamo il futuro), l’apprendimento attraverso lo studio del passato, il rapporto tra il lavoro e la vita. Cambia molto se pensiamo in prospettiva momentanea – allargando al più, al tempo della nostra esistenza individuale – o se invece prendiamo come metro le generazioni, i secoli, le epoche (il che, mi viene da dire, sarebbe più realistico…). Forse l’arte mi ha attratto sempre per questo, per il dialogo possibile che nasce immediatamente tra noi e altri esseri umani vissuti in spazi e tempi molto distanti. Su che cosa ci concentreremo Enrico, per questo “nuovo” progetto?
EV: Mi piace la parola “ concentrarsi”! Si potrebbe anche vedere nell’ottica del “centrarsi con”. Trovare il proprio centro insieme. Alla fine ognuno di noi, operando, cerca di fare questo. Io cerco di farlo tentando di giungere ad un’opera e tu lo stesso, cerchi di farlo nel tuo interpretare, scrivere e curare. La stessa cosa la fanno ogni giorno nel mondo migliaia di persone e ognuna di loro cerca di centrare sé stessa rispetto alle difficoltà da superare nella quotidianità e allo stesso tempo rispetto alla storia dell’umanità. Quali sono stati gli umani rilevanti in questa storia? Quali sono i pensieri importanti che ci hanno permesso di raggiungere l’attuale sapienza globale? Quali pensieri dannosi ci hanno invece intossicato l’esistenza? E soprattutto, tutto questo pensare ci ha veramente evoluti? Tempo fa ho iniziato a riflettere su “gli spensierati”. Ma non solo nel senso di quelle persone che vivono la vita con leggerezza o noncuranza ma soprattutto nel senso di quegli esseri viventi o non viventi che non hanno facoltà di pensiero. Per come intendiamo comunemente il pensare, le pietre non hanno facoltà di pensiero, le piante non hanno facoltà di pensiero, il mare ed il cielo non pensano. Esistono e basta. Non pensano ma sono sicuramente più vicini all’immortalità di noi. L’animale più longevo in natura coincide con l’animale più lento. Gli esseri immobili, sono potenzialmente eterni. Su questo ci concentreremo, per questo “nuovo” ma allo stesso tempo antichissimo progetto. Ci concentreremo sul nostro vivere da esseri umani, come già tu suggerivi, in prospettiva epocale. Qual è il tuo primo pensiero al mattino?
MI: Domanda difficile! Ti direi che il primo pensiero è variabile, in qualche modo dipende da quanto l’ambiente intorno mi influenza. A volte siamo più a ritmo e ci sembra di indirizzare gli eventi, altre volte accade l’opposto, siamo noi in loro balìa. Per esempio, le persone che vivono in contesti di grande difficoltà, per ragioni sociali, politiche, economiche… immagino che i loro pensieri del mattino debbano sempre indirizzarsi a come sopravvivere e migliorare l’esistenza, oppure è solo una mia proiezione. Comunque, questo mi rimanda al tuo lavoro sulle forme di resistenza; in questo caso sì che l’azione è nutrita da pensieri precedenti, con l’obiettivo di cambiare un contesto che si ritiene iniquo.
EV: La domanda certamente non era semplice! Forse era meglio porne un’altra. Quale sarà stato il primo pensiero al mattino di un Homo sapiens vissuto in Marocco 300.000 anni fa?
Quell’uomo non credo si ponesse il problema se il suo contesto socio-ambientale fosse iniquo o meno. Il contesto si basava su tutt’altro. Il mio lavoro sulle forme di resistenza cerca una soluzione efficace, applicabile e condivisibile, ma trae origine dall’interrogarsi sulle origini delle attuali propensioni umane. Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre umani propensi alla crudeltà, all’egemonia, alla volontà di sopraffazione dei propri simili e ci saranno sempre umani che si opporranno. Questi ultimi come possono difendersi? Quale forma di resistenza dovranno mettere in atto per ritrovare la propria libertà? Una forma di resistenza violenta o non violenta? Quale delle due, nella Storia, ha dimostrato di essere la più risolutiva? È da un po’ di tempo che lavoro intorno a questo tema, ma negli ultimi mesi credo che la questione sia divenuta, ancor più, di estrema attualità.
MI: C’è anche un altro aspetto, a corrispettivo; la capacità dell’essere umano di organizzarsi e collaborare, ha significato lo sviluppo di facoltà eccezionali (intendo questo termine in senso letterale, non da una prospettiva antropocentrica). Il video Il Sovrumano, almeno in modo complementare, riguarda anche questo, mi pare.
EV: Certo. Il Sovrumano riguarda anche questo e tutte le invenzioni degli uomini funzionali a suggestionare gli altri uomini. Ho filmato gli animali presenti nel video in un’ottica antropologica, non zoologica. Le altre specie non hanno mai avuto la necessità e soprattutto la facoltà, di pensare narrazioni spirituali o politiche, capaci di smuovere masse di individui per raggiungere un’ideale comune. L’uomo invece, a un certo punto della sua evoluzione, è riuscito ad attivare nella sua mente questa rivoluzione cognitiva, che gli ha permesso di superare le sue peculiarità originarie e ha spianato la strada al suo dominio sulle altre specie. Forse perché, ad un certo punto, non è stato più in grado di comprenderle e di saperci convivere.